Il valore della filosofia come servizio alla vita è l’elemento che unifica l’intero arco del pensiero antico. Ogni scuola a propria volta ha apportato una propria curvatura all’idea che la filosofia sia l’arte di saper vivere in conformità al bene.
Un esempio utile a capire questa prospettiva è uno dei testi filosofici più frequentati fino a due secoli fa: il cosiddetto Manuale di Epitteto, in verità redatto da un suo alunno, un alto funzionario imperiale, Arriano di Nicomedia, allo scopo di farne un vademecum filosofico di facile e continua consultazione, da tenere sempre a portata di mano.
Redatta tra il 120 e il 140 d.C., questa breve composizione precettistica sopravvisse nei secoli. Noto persino nella Cina del ‘500, il Manuale divenne un testo a uso scolastico memorizzabile senza difficoltà, una porta d’accesso alla filosofia per chi, pur non essendo filosofo, si proponeva di vivere in modo migliore ispirandosi a uno stile e un modello filosofici. L’elenco dei pensatori che si sono riferiti, anche criticamente, al Manuale è lunghissimo: per limitarci al XIX secolo, Leopardi (che lo tradusse in italiano), Schopenhauer e Nietzsche.
Sempre nella redazione di Arriano, il pensiero di Epitteto ci è giunto anche nelle Diatribe, una sintesi di un ciclo di lezioni che mescolavano due metodi: l’esegesi testuale di un classico da parte del maestro, seguita da domande e chiarimenti; e una riproposizione di un dialogo alla maniera socratica.
Non ha interesse sapere quanto il Manuale e le Diatribe possano ritenersi una restituzione fedele del pensiero di Epitteto. Di certo sappiamo che fu un liberto e che ad un certo punto aprì una scuola di filosofia a Roma, fino a che non venne esiliato da Domiziano attorno al 90 d.C., fino a morire attorno al 130.
L’insegnamento di Epitteto si dispose nell’alveo dello stoicismo romano, i cui princìpi Pierre Hadot sintetizza così: 1) Non c’è altro bene se non il bene morale; 2) Ogni attività umana si fonda sul giudizio; 3) La Natura è coerente con se stessa.
Il primo principio è di tradizione socratica: il saggio che persegue il bene morale è invulnerabile rispetto a ogni male che gli giunga dall’esterno. A fondamento di questo principio è l’autonomia del volere morale – che dipende esclusivamente da noi – davanti a ciò che non dipende da noi, come la volontà altrui, sulla quale non abbiamo potere (possiamo interagire, ma la scelta dell’altro esula dal raggio delle nostre scelte o predilezioni).
Il Manuale comincia infatti così: «Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, e in una parola tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri. Le cose che dipendono da noi sono per natura libere, senza impedimenti, senza ostacoli. Le cose che non dipendono da noi sono in uno stato di impotenza, di schiavitù, di impedimento, e ci sono estranee».
La pace dell’anima, che è il bene più alto cui si possa aspirare, nasce dalla capacità di sopportare, e anzi possibilmente ignorare, ciò che accade al di fuori del nostro potere e della nostra volontà. Mentre il male morale può discendere solo da noi stessi e dalle nostre passioni, ogni altra cosa che non dipende da noi non è né bene né male: tra questi le ingiurie, la povertà, la sofferenza, la malattia e soprattutto la morte.
Il desiderio e il suo opposto, l’avversione, vanno disciplinati e governati in relazione a questa distinzione tra ciò che è e ciò che non è in nostro potere. Questo principio si precisa meglio con il significato attribuito dagli stoici al «giudizio». Il giudizio è sempre un prodotto della ragione, e di per sé la ragione non è né buona né cattiva: a renderla buona o cattiva sono le nostre rappresentazioni (o fantasie), le nostre aspettative e l’’assenso che accordiamo al giudizio trasformandolo in volizione.
Commenta Hadot: «La ragione, la facoltà di giudizio, non è più, come nel platonismo, contrapposta all’irrazionale come il bene è contrapposto al male, ma è la ragione stessa a potersi corrompere, trasformare completamente, a poter essere buona o cattiva secondo i giudizi, veri o falsi, che formula e a cui dà il suo assenso». L’educazione alla vita e l’arte di vivere consistono soltanto nell’esercizio del discernimento: un esercizio consapevole perché addestrato e addestrato proprio perché consapevole.
Il giudizio che definiamo buono nasce là dove si esauriscono le passioni, o vengono tacitate dall’esercizio di una ragione opportunamente addestrata; là dove, in altri termini, cessano i moventi dell’interesse e della ricerca del piacere nella disciplina del nostro agire e si instaura l’indifferenza, l’invulnerabile estraneità a ogni passione a cui acconsentiamo benché non sia in nostro potere soddisfarla. Libertà e felicità sono i frutti del giudizio disinteressato e sereno, ossia privo di inquietudini. Perciò, poiché siamo noi a formulare i giudizi, siamo i soli responsabili della nostra infelicità, ove le nostre volizioni siano state dirottate da giudizi falsi e inquinati dalle passioni.
Di qui discendono i tre ambiti entro i quali chi aspira a vivere filosoficamente deve potersi esercitare: 1) il discernimento tra i desideri e le avversioni che possono condurre alla nostra felicità, o serenità, e quelli che ci conducono alla frustrazione o addirittura al dolore; 2) la capacità di giudicare cosa convenga e cosa non convenga fare; 3) la comprovata correttezza del nostro assenso ai giudizi e alle inclinazioni che li orientano.
Secondo Hadot questi tre ambiti solo formalmente richiamano la tripartizione dell’anima in anima concupiscibile, irascibile e razionale. In Platone infatti le prime due sono irrazionali e perciò contrapposte alla terza, mentre in Epitteto «è la ragione nella sua interezza a essere giudizio, impulso e desiderio: le tre attività si collocano sullo stesso piano. L’anima razionale può quindi, a seconda della sua scelta di vita, essere anch’essa buona o cattiva».
Il terzo principio infine, relativo alla coerenza della natura con se stessa, offre alla volizione del bene un elemento di conforto. Anche quando essa non si manifesta agli individui, vi è un’intrinseca razionalità nel mondo, e gli umani devono accettarla in virtù dell’identità tra essere e dover essere. E proprio questa identità costituisce la coerenza propria del filosofare e del vivere.
Di qui scaturisce una rilevante sottodistinzione tra le cose che dipendono da noi: quelle conformi alla natura, e quelle contrarie alla natura, che occorre avversare. Il nucleo della libertà (e della servitù) umana nel pensiero di Epitteto è, in ultima analisi, situata in questa conformità.
You must be logged in to post a comment Login