L’Antica via della Seta è senza dubbio molto suggestiva non solo per le bellezze naturali e paesistiche, il fascino storico degli scambi commerciali e della comunicazione fra est e ovest, le grotte buddiste scolpite e affrescate, il crogiuolo di etnie diverse che si sono combattute ma convissuto per secoli. Non solo per questo. Soprattutto perché ti fa capire, se sei guidato con intelligenza critica, che non c’è una sola Cina ma tante profondamente diverse e che visitare esclusivamente quella classica delle grandi città non ti offre affatto il ritratto completo di questo enorme e complesso “continente”.
La parte centrale della via della Seta è lo Xinjiang, una vastissima Regione, cosiddetta autonoma, grande cinque volte l’Italia e con circa 25 milioni di abitanti nel nord ovest della Cina che confina con diversi Stati asiatici a maggioranza musulmana. È questo il dato culturale, “ambientale”, civile e politico, che maggiormente la caratterizza e ne fa un luogo davvero speciale.
Anche in questi territori domina l’ateismo di Stato; le religioni sono tollerate ma con diversità molto evidenti. Il buddismo è praticato liberamente nei suoi magnifici templi. Appena fuori di Xinjiang si erge il monastero di Labrang di rito tibetano con i suoi oltre duemila monaci, i corsi di insegnamento non solo religioso e la terza autorità buddista al mondo. La diffidenza verso i musulmani si tocca invece con mano. Le città di Kashgar e Turpan in particolare, con quasi il 70% di islamici, sono praticamente militarizzate con un enorme dispiegamento di polizia e un controllo asfissiante al limite della repressione.
Se l’impossibilità o la difficoltà di usare i social network è comune a quasi tutta la Cina, le restrizioni assumono in questi luoghi un carattere estremo. In albergo a Turpan non è stato nemmeno possibile ottenere la linea telefonica internazionale; non sanno cosa sia WhatsApp (o fingono di non saperlo); nessuno conosce una parola d’inglese; le strade sono imbandierate con il simbolo rosso dello Stato cinese e il presidente Xi Jinping, leader del Partito del Popolo, sorride sui grandi cartelloni che in sostanza vogliono dire che questa regione è, e sempre resterà, nella madre patria cinese senza possibilità di una sia pur minima indipendenza.
Appena si esce dalla Regione autonoma (?) dello Xinjiang, ma restando ben dentro la Via della Seta, il clima sociale e politico cambia e migliora a vista d’occhio. Dunhuang, per citare un solo caso fra i tanti, è una piccola e bellissima città con delle dune affascinanti alte fra i 200 e i 300 metri e con infrastrutture così lussuose e ardite da competere con quelle degli Emirati arabi. Simboliche le piccole aree attrezzate dentro il magnifico fiume che l’attraversa (sponde con aiuole e mosaici splendidi), dove si può arrivare solo camminando rischiosamente su delle colonnine circolari di un diametro non superiore al mezzo metro in acque profonde e infide. Confesso di aver provato apprensione incrociando un paio di persone che facevano in senso inverso il mio stesso percorso.
Cito Dunhuang (potrei citare anche altre città) perché penso rappresenti bene l’audacia, la volontà di sperimentare l’avvenire, perfino la spericolatezza della Cina moderna nella quale convivono la mano pesante ed autoritaria del partito del Popolo e una libera economia di mercato con pazzesche e crescenti disuguaglianze sociali. Imponente la sede del Partito del Popolo di Lanzhou (tre milioni e mezzo di abitanti e capoluogo della provincia del Gansù) con alle spalle un grattacielo simbolo del capitalismo rampante. Incredibile che mi sia stato proibito di fotografare questi palazzi frontalmente, tanto da essere energicamente accompagnato dai poliziotti un pochino più lontano con la richiesta, respinta, di mostrare il mio cellulare (il che non mi ha impedito di scattare una foto a debita distanza dall’ingresso principale).
Quanto potranno resistere tali contraddizioni (libertà economica e assenza di libertà politiche) soprattutto in queste parti della Cina dove cova un sentimento popolare rivoltoso? Chissà! C’è solo da sperare che questa situazione evolva in senso democratico ma con una fortissima gradualità perché le esplosioni sociali potrebbero essere in agguato e deflagrare in tutta l’Asia centrale.
E la “rivoluzione culturale” di Mao che per un decennio (1966-1976) aveva scatenato paure (o speranze) e raccolto fanatici seguaci anche in Italia? I luoghi simbolo di quell’epoca sono quasi vuoti a Pechino e le ex guardie rosse, o chi ne sente la nostalgia, ridotte allo stato di umiliante folclore.
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