Vado a memoria… Doveva essere l’estate del 1974. Caricati su una Citroën Ami 8 dal color celeste pallido, la mia famiglia partì alla conquista della Jugoslavia. Fu in quella occasione che, nelle memorie familiari, il blu fu elevato a emblema dell’eleganza e della raffinatezza. Sbarcati a Dubrovnik, alloggiammo in un albergo molto al di sopra dei nostri consueti standard vacanzieri. I miei fratelli ed io ci guardavamo intorno un po’ intimoriti dall’ambiente e dai camerieri in livrea. E proprio presso il ristorante di quell’albergo, su una terrazza che si affacciava direttamente sul mare, a mio padre fu servita una «trota in blu». Non ho alcun ricordo del piatto né ricordo se alla fine avesse trovato il gradimento del genitore. So però che da quel momento, e per tutta la sua lunga vita, quella «trota in blu» si è costantemente affacciata nei suoi ricordi ed è stata continuamente riproposta nei suoi racconti. Era diventata il simbolo di un mondo, esageratamente lussuoso, che, almeno per una volta nella vita, aveva letteralmente assaporato.
Credo sia stato per questa ragione che anche nel mio personale immaginario cromatico il colore blu sia diventato attributo di eleganza. Tutto ciò che era blu assumeva ai miei occhi la raffinatezza intangibile di una dimensione sociale che pensavo esistesse solo nei film di James Bond.
Nel corso del tempo, però, ho iniziato a guardare al blu con maggiore distacco e con più attenzione. Fu con stupore, ad esempio, che scoprii come il blu fosse lo stigma cromatico di Madame Bovary. Ricorderete che anche la modesta Emma agognava una vita da consumarsi in teatri e salotti. Flaubert la presenta sempre in blu: da quando il dottor Charles la incontra per la prima volta, sino a quando, disperata, si toglie la vita ingurgitando dell’arsenico, che attinge da un vaso. Blu.
(Recentemente, Riccardo Falcinelli, che è un visual designer, nel suo libro Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, uscito quest’anno per i tipi di Einaudi, ha riscontrato come un centinaio di anni prima della povera Emma, anche il giovane Werther si fosse dato la morte indossando una giacca di colore blu. E ciò contorna di un alone inquietante e cupo il nostro colore.)
All’epoca in cui muore Emma Bovary, e cioè alle ore sedici del 24 marzo del 1846, non esistevano ancora i colori artificiali. Quindi anche il blu era ricavato da elementi naturali.
Quest’estate, ad Urbino, ho avuto la possibilità di visitare un delizioso orto botanico. Lì, per caso, mi sono imbattuto in un cultore del blu. O meglio, del guado, il cui nome scientifico è Isatis tinctoria. Da questa pianta, coltivata diffusamente nelle terre dei Montefeltro a partire dal XIII secolo, si estraeva (si estrae) il colorante blu. Con molto garbo e molta pazienza, questo appassionato botanico ha sopportato gli assalti della mia curiosità. Il procedimento per estrarre il colore da questa pianta era particolarmente lungo e complicato. Ed anche un po’ sgradevole… La coltura del guado si diffuse presto in Linguadoca: a Tolosa e a Erfurt si commerciava il cosiddetto «oro blu».
Le cose cambiarono quando dalle Antille e dal Nuovo Mondo sbarcò in Europa l’indaco. Dal XVI secolo, a nulla valsero le misure protezionistiche volte a impedire la diffusione di questa sostanza colorante ricavata dall’Indigofera tinctoria. L’indaco spodestò lentamente, ma in modo inesorabile, il blu di guado. Poi, anche l’indaco dovette farsi da parte. Ma questa volta fu la chimica a sostituirlo: nel 1878, Adolf von Baeyer riuscì a sintetizzare l’indaco. Anche per questo, nel 1905 gli fu conferito il premio Nobel.
Questo e molto altro mi è stato raccontato in un pomeriggio di agosto.
Tornato a casa, non ho potuto fare a meno di documentarmi. E così mi sono procurato il libro che lo storico francese Michel Pastoureau ha dedicato al blu. Si chiama proprio così: Blu. Storia di un colore ed è stato tradotto in italiano nel 2002 dall’editore Ponte alle Grazie (che ha pubblicato anche, dello stesso autore, i volumi dedicati al nero, al verde e al rosso). Pastoureau spiega che sino al XII secolo il blu era considerato un colore secondario. E infatti, solo a partire da quel periodo si inizia a rappresentare la Madonna con un mantello blu. Del resto, il personaggio evangelico ne ha viste di tutti i colori… Inizialmente colorata di nero, a sottolineare il lutto e il dolore per la perdita del figlio, fu poi associata al blu, all’oro, in età barocca, e al bianco, quando, nel 1854, Pio IX affermò il dogma dell’immacolata concezione. Nel Museo di Liegi, ricorda lo storico francese, è conservata una statua lignea della Madonna risalente all’XI secolo, che, nel corso del tempo, ha subito un restyling cromatico, passando, per l’appunto, dal nero, al blu, all’oro, al bianco.
Oggi, il blu è il colore più utilizzato nell’abbigliamento di tutto il mondo occidentale. Ed anche nel disegno dei parcheggi a pagamento.
A Varese, le polemiche delle ultime settimane hanno addirittura fatto scivolare la nobiltà del blu a sgradevole metafora erettile. Nell’ultima seduta del Consiglio comunale, il blu degli stalli a pagamento del recente Piano della sosta, che nella maligna interpretazione di un membro dell’opposizione avrebbe la sola funzione di far crescere le entrate delle casse comunali, è stato associato alla analoga funzione riconosciuta a note pasticche dello stesso colore. Peccato… Il blu, per me ancora avvolto da un alone di eleganza, è tristemente scivolato verso la malinconia di un blues.
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