Le note di Mario Brunello nel cielo sopra Varese hanno acceso nuove speranze e scaldato i cuori. È accaduto sabato scorso, in occasione della settimana di Nature Urbane, il Festival del Paesaggio curato dal Comune. Una mattina di nuvole e un clima non a livello di questo meraviglioso autunno, insperabilmente mite per noi. Perché qui a Varese il cielo di Lombardia non sempre appare bello, come lo è stato invece a settembre, regalandoci uno squarcio d’estate inatteso.
Qualcuno, aspettando all’aperto il secondo turno del concerto tenutosi nelle sale del Grand Hotel di Campo dei Fiori, ha porto le mani in uno scambio di entusiasmo gioioso agli amici che ne uscivano allietati: aveva le mani fredde per l’attesa, ma si è poi riscaldato il cuore con la musica di Brunello, artista dell’universo.
Per chi ancora non lo avesse ascoltato dal vero è stato possibile, grazie a questa unica -e speriamo non sola- occasione varesina di incontro con l’artista.
Brunello è arrivato, un po’ istrione e sciamano -i capelli mossi, del colore del grano, a incorniciare un viso ispirato e mobile- curioso di nuove facce e amicizie. Ha portato al Grand Hotel la medicina dell’attenzione e la cura dell’amore, quella, forse la sola, che può guarire ogni male.
È stata dunque, a dispetto del tempo, una mattinata luminosa, perché le note del violoncello dell’artista, che ha portato lassù le Suites di Bach e il Concerto Rotondo di Giovanni Sòllima, hanno riempito la sala delle feste del Grand Hotel di Campo dei Fiori.
Il prodigio di un albergo nato da una complessa e ardimentosa impresa, nel Novecento vivo di voci e presenze, ha così riaperto nel 2017 le sue porte per la seconda volta, senza nascondere ferite e oltraggi del tempo e degli uomini. Rivelando, accanto ai segni dell’antica bellezza, un’acustica prodigiosa e l’insperata conferma di un luogo ancora ben conservato. Con una gran voglia di lasciarsi alle spalle malanni e acciacchi, di scrollarsi di dosso la violenza pesante dei ricevitori e delle onde acustiche che l’invadono, di vivere, magari, una nuova e lunga vita: bello il salone affacciato sulla valle per tre lati, belli e ben conservati gli stucchi che adornano la parte alta delle pareti, dove s’affaccia anche la balconata per l’orchestra, quasi intatto il parquet dove i visitatori d’inizio secolo, molti gli illustri ospiti, si muovevano con disinvoltura al suono della musica. Quel secolo appena iniziato, ancora non lo sapevano, avrebbe purtroppo tradito nel tempo tante attese, con il doppio delirio di due guerre mondiali.
All’esterno, attorno all’edificio, lo sguardo corre a perdita d’occhio, tra i colli, verso la città, e inquadra più oltre, se ci si incammina appena un poco, la stazione d’arrivo della funicolare fissata ormai, fin dagli anni Cinquanta, nella sua inutile attesa, eppure presente, complessivamente sana nella robustezza, grazie all’antico lavoro di imprese locali, di altissimo livello, che avevano operato lì (ma anche altrove) creando quel miracolo che il Sommaruga (1867-1917) aveva ideato: il gioiello liberty varesino arroccato sul Campo dei Fiori.
Più ampio del Palace, con tante più stanze. Unico e ineguagliabile gigante della montagna: da cui si vede il più bel panorama della Lombardia, che fa di Varese, costruita su sette colli, anche la città dei sette laghi e delle sette torri.
Senza rubare primati a San Gimignano, almeno sette torri le abbiamo anche noi: il campanile di san Vittore del Bernascone e la torre di piazza Monte Grappa, la torre di Villa Mirabello, in procinto di restauri, la torre di Velate e quella di Masnago, la torre del Sacro Monte, altra opera del Bernascone, abbassata e squadrata nel tempo per colpa dei temporali che ne mozzavano la cima, e lassù, la torre delle torri, che guarda alla terra e al cielo: l’osservatorio della Cittadella voluto da Salvatore Furia.
Chi ha osservato in questi giorni la Tre Valli varesine, ottima e storica gara ciclistica ma anche ottima operazione di marketing territoriale, ha visto dall’alto Varese in tutta la sua bellezza morbida, ornata di verde e di ville, ma anche turrita grazie alle sue architetture arroccate sulle cime.
È proprio questo Il Paesaggio di Varese, quello ricordato dall’assessore alla cultura Roberto Cecchi e da Andrea Carandini, presidente del FAI, in occasione dell’inaugurazione del festival: fatto di quel verde e di quell’architettura che si compenetrano e vediamo ogni giorno, o appena intravediamo, nelle stratificazioni del tempo.
Perché nel tempo, sotto la visione quotidiana cova la brace della vita dei secoli, cioè la cultura. Carandini ha ricordato al debutto della sua attività di giovane archeologo di aver intravisto e poi trovato sotto la ‘spazzatura’ di alcuni scavi, frutto della quotidianità millenaria, il racconto della storia di Roma.
Certo Varese non è Roma. Ma chi lo dice che Varese non ha cultura?
Anche Montanelli, raccontandola, aveva scritto una fesseria. Guardando a Varese come città quasi colpevole di essere patria soprattutto di bottegai e artigiani, insomma troppo concentrata sul suo fare operoso e attenta ai soldi.
Eppure, nella stratificazione della quotidiana operosità, non meno che nella sua gloria di città risorgimentale, c’è il più autentico racconto della storia e della cultura di Varese.
Il duca d’Este Francesco III, Signore di Varese sotto Maria Teresa d’Austria, frequentatore degli antichi portici dove s’affacciavano le botteghe dei varesini, aveva tra loro ottimi amici: si racconta sostasse dallo speziale Magatti -avo dell’ omonimo e splendido pittore Pietro Antonio, noto per le sue dolcissime Madonne- al quale si rivolgeva per avere consigli e suggerimenti, o rimedi come il famoso siero di vipera.
Il Duca, gran signore, non tanto per il blasone, ma per la testa che aveva, aveva capito tutto dell’orgogliosa Varese. E mai la umiliò, imponendole una sudditanza indesiderata, anzi la amò di un amore senza fine eleggendo qui la sua prediletta dimora: il meraviglioso Palazzo estense, oggi sede del Comune.
Insomma anche l’antica storia varesina merita di essere conosciuta e finalmente fatta conoscere. L’offerta culturale che riguarda il nostro territorio, che parte dalle sue ville, dalle sue specie arboree, dalle sue chiese e dal suo agglomerato borghigiano, dai musei e da quant’altro è un dono da cogliere e spendere al meglio.
L’ottimo insegnante di greco e latino, Raimondo Malgaroli, docente nel glorioso liceo classico della città -perché intestato a Ernesto Cairoli morto a Biumo Inferiore nel 1859, e membro di una famiglia di patrioti- era solito ripetere, a smentire le valutazioni di chi pensa o pensava (a partire dal poeta Orazio) che la cultura non dà da mangiare: carmina non dant panem, sed… companaticum.( la poesia non dà il pane, ma…il companatico)
Credo che il mio insegnante avesse ragione. E dobbiamo imparare tutti a credere che così è. Il mecenatismo ha ancora una sua grande necessità, così come l’attenzione all’arte e alla cultura possono diventare, più che una frequentazione piacevole, un alimento spirituale quotidiano ma anche una opportunità economica spendibile a favore di tutti.
L’evento Nature Urbane promosso da Varese, del quale sarà possibile riferire gli esiti più avanti, sta già confermando, nell’ampia richiesta di partecipazione alle centinaia di eventi culturali promossi, che la gente ha sete e fame di bellezza. E di una nuova profondità del vivere.
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