Nell’era della globalizzazione, per quanto concerne la ricerca medica, si assiste a chiari fenomeni di colonialismo e imperialismo bioetico, per cui si pone il problema di un equilibrio eticamente accettabile tra pertinenza della ricerca, rischio di sfruttamento e misure di condivisione dei benefici, con la preoccupazione che dietro gli interessi scientifici non si nascondano interessi eminentemente commerciali.
Il cammino della ricerca è chiaramente delineato: a degli studi preclinici, in vitro o su animali, fanno seguito quelli clinici, riguardanti in una prima fase un ristretto numero di volontari sani e in due fasi successive gruppi più ampi di pazienti.
A una prima valutazione dell’efficacia nei confronti di una determinata malattia si accompagna quella dell’efficacia e tollerabilità confrontate con quelle dello standard terapeutico preesistente.
In considerazione di un certo livello di rischio è necessario che gli studi clinici si compiano solo con l’autorizzazione delle autorità sanitarie competenti e di un Comitato etico indipendente. Essi esigono il consenso informato su obiettivi e modalità di rischio, rischi ed eventuali benefici, la volontà della partecipazione, la messa in chiaro dei propri diritti. Questo in relazione ai tanti abusi del passato, più o meno mascherati.
L’etica della ricerca è ben delineata nella Dichiarazione di Helsinki (della World Medical Association, 2013) e nelle Linee guida del CIOMS (Council for International Organizations of Medical Sciences, 2002). Requisito fondamentale è che la popolazione in cui è sperimentato un nuovo farmaco deve poterne fruire nel futuro, ad evitare che sia solo oggetto di sfruttamento.
In passato l’industria farmaceutica realizzava lo sviluppo clinico di nuovi farmaci in Paesi ad alto reddito, ma nel corso degli ultimi venti anni si è verificata la globalizzazione dei trial clinici, specie in Paesi a medio e basso reddito. Tre le categorie delle condizioni da tenere presenti: 1) la validità scientifica, in funzione del contesto epidemiologico e delle caratteristiche delle popolazioni e dei sistemi di salute; 2) la convenienza, perché gruppi poco scrupolosi possono sfruttare a bassi costi la disponibilità dei pazienti nei Paesi a basso reddito a partecipare con scarsa o nulla coscienza dei rischi; 3) la salute globale, in relazione a studi clinici su problemi di salute prioritari delle popolazioni del Sud (virus Ebola, l’HIV pediatrico, le patologie tropicali trascurate).
Alla globalizzazione non si accompagnano strategie adeguate per la condivisione dei benefici, vedi il caso dei farmaci salvavita, quando si tratti di tumori del sangue (farmaci innovativi e molto costosi per leucemie, linfomi, mieloma multiplo).
I nuovi farmaci, che comportano un significativo miglioramento dell’aspettativa o della qualità della vita, devono poter essere registrati dall’azienda farmaceutica, che li ha sviluppati, in tutti i Paesi coinvolti negli studi clinici e per tutti i pazienti di quei Paesi che ne hanno bisogno, a prescindere dai meccanismi di copertura previdenziale. In una agenda di ricerca globale la soluzione non va cercata nell’esclusione, ma deve passare dall’inclusione.
Per quanto concerne l’Italia è intervenuto nel 2011 un importante parere espresso dal Comitato nazionale per la bioetica (CNBI) (La sperimentazione farmacologica nei Paesi in via di sviluppo), in cui si richiama la Dichiarazione di Barcellona del 1998 nel definire la condizione di vulnerabilità.
Nell’ ambito di un’etica della cura della persona persone vulnerabili sono quelle, la cui autonomia e dignità o integrità possono essere minacciate. Tale caratteristica non è da riferire solo al singolo individuo, ma anche a tutte le comunità che strutturalmente sono esposte a disuguaglianze nell’accesso alle cure.
Il Comitato nazionale di bioetica ritiene che non basta riferirsi a un’accezione generica di vulnerabilità quale “condizione ontologica o condizione personale”, bensì “alla vulnerabilità quale condizione particolare vissuta da alcune popolazioni che, per diverse ragioni, possono essere esposte ad una indebita manipolazione della loro autonomia nell’ambito della partecipazione alla sperimentazione”.
“È emersa, con sempre maggiore frequenza a livello internazionale, la preoccupazione che la globalizzazione degli studi clinici nasconda soltanto una “delocalizzazione” o “esternalizzazione” della sperimentazione per ridurre i costi e semplificare le formalità burocratiche, per reperire con maggiore facilità e rapidità “corpi” da utilizzare, per penetrare in nuovi mercati “. Il criterio di giustizia interagisce con quello di beneficialità.
Il CNB auspica che le aziende rendano i nuovi farmaci disponibili a prezzi accessibili e diversificati in ragione dei segmenti di mercato. A questi risultati si può pervenire solo rispettando criteri di trasparenza e un livello regolatorio–normativo, che tenga conto al contempo del potere d’acquisto di ciascun Paese e vincoli l’autorizzazione alla commercializzazione all’obbligo di registrazione del nuovo farmaco.
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