Dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea iniziò una vera competizione tra europeisti convinti ed eurocritici. I quarti di finale si svolsero nei Paesi Bassi nel marzo scorso: il partito antieuropeista di Geert Wilders (PVV) ottenne il 13% dei suffragi e fu possibile costituire un governo di coalizione fortemente europeista. Le semifinali si svolsero in Francia il 7 maggio scorso e gli sfidanti per la presidenza della Repubblica – Macron e Le Pen – si affrontarono a colpi di sciabola e di fioretto: alla fine vinse l’europeista Macron, che più volte in seguito dichiarò che, per mettersi al sicuro dagli euroscettici, occorreva attendere la finale che si sarebbe giocata in Germania domenica 24 settembre.
Nel frattempo, anche in Germania il panorama politico cambiava: la cancelliera uscente Angela MerKel, che aveva già annunciato la sua candidatura sostenuta dai centristi della coalizione CDU – CSU, si trovò a rivaleggiare con il presidente dimissionario del Parlamento Europeo, Martin Schulz, candidato del partito socialdemocratico (SPD)). Furono in molti a pensare ad una possibile vittoria del SPD poiché si notava un diffuso senso di stanchezza percepibile fra gli elettori di frau Merkel. Nei suoi dodici anni alla guida del Paese, la cancelliera si era distinta per abilità tattiche più che per profondità di visione strategica e dimostrava di essere europeista più per cuore che per ragione. Si era inoltre dimostrata impegnata ad occupare ed allargare il centro dello spazio politico tedesco, rinunciando a professare un’ideologia marcatamente conservatrice, anche a costo di destare perplessità soprattutto nell’ala bavarese (CSU): insomma dimostrava in fondo all’animo di essere socialdemocratica! Cercò di riappropriarsi di due obiettivi dei partiti rivali: la brusca decisione di accelerare l’abbandono della produzione di energia nucleare, la cui scelta fu aspramente criticata dagli imprenditori e contemporaneamente esaltata dai “verdi”, e la coraggiosa apertura alla politica migratoria costruita anche per spiazzare e confondere i socialdemocratici.
Anche nella SPD – in modo simmetrico – nascevano intanto sentimenti contro il vice-cancelliere e ministro degli Esteri, il socialdemocratico Gabriel, giudicato troppo succube ed arrendevole nei confronti della Merkel. Da qui il cambio del candidato alla cancelleria: Gabriel venne sostituito da Schulz, presentato come più credibile in un momento di congiuntura politica che la Brexit e l’elezione di Trump avevano reso turbolenta e gonfia di incognite. La candidatura Schulz avrebbe dovuto avere inoltre l’effetto di spiazzare il partito ecologista dei Verdi e quello comunista della “Linke”.
Ma a destra dei conservatori bavaresi e dell’ala marcatamente tradizionalista della CDU si formava un nuovo partito di estrema destra: l’ “Alternative fuer Deutschland” (AfD) capace di attirare i voti dei conservatori delusi per la politica centrista di “Muetter” Merkel, degli arrabbiati, degli anti-islamici e, bisogna pur dirlo, di alcuni gruppuscoli fanatici che si richiamano al nazionalsocialismo.
È in questo scenario che si sono svolte, domenica scorsa, le elezioni tedesche. La maggior parte degli osservatori prevedeva un calo della CDU – CSU, alcuni anche del SPD e – secondo i sondaggi – l’AfD poteva raggiungere la soglia del 10-12%. Entrambi i candidati dei due maggiori partiti, Merkel e Schulz, dalle solide credenziali europeiste, potevano rassicurare l’Europa.
Contrariamente alle previsioni, i risultati sono stati molto demoralizzanti sia per la CDU – CSU che si è fermata al 33% perdendo più dell’8% di suffragi rispetto alle elezioni del 2013. “È stato un giorno difficile e amaro” – ha dichiarato Schulz – anche per il SPD che ha superato di poco il 22%, calando del 5% rispetto ai suffragi precedenti. Grande, al contrario, il successo dell’AfD che ha superato il 12% dei voti, ottenendo 96 scranni al Bundenstag, entrando così per la prima volta nel parlamento federale. Rientrano pure in parlamento i liberali. Molto alta l’affluenza alle urne: quasi otto tedeschi su dieci hanno votato. La maggioranza uscente ha ottenuto il 53% dei voti pari a 400 seggi su 709, i moderati e i progressisti (CDU, SpD, Verdi, Liberali, Linke), in vario modo europeisti, l’8°% dei consensi: risultati più che soddisfacenti per gli europeisti, come la Merkel.
Angela Merkel avrà ora il compito di formare il nuovo governo di coalizione. Se riuscirà a portare a termine la legislatura, uguaglierà il cancellierato del suo mentore Kohl, il cancelliere dell’unificazione, recentemente scomparso, e supererà di tre anni quello di Adenauer, il cancelliere della ricostruzione. Si apre ora in Germania un nuovo periodo storico.
Molte analisi si sono fatte sul voto tedesco. Io desidero soffermarmi su un aspetto che riguarda ormai tutta la politica europea: la crisi dei partiti dovuta alla ricerca da parte dei leader di accaparrarsi consensi per poter governare, anziché per contribuire alla partecipazione democratica, nelle aule parlamentari, dai banchi della minoranza. So bene che per governare occorre avere una maggioranza parlamentare, ma ciò non significa che si debba rincorrere l’avversario rinunciando alla propria identità, appropriandosi di quella dell’antagonista. La crisi delle ideologie ha portato con sé anche la crisi delle idee e la rinuncia ai valori che devono caratterizzare un partito. È nato così un “meticciato” partitico-culturale che uniforma vizi e virtù, che arraffa programmi un po’ di qua e un po’ di là, che fa scattare la brama della prevaricazione e il trionfo dell’incompetenza.
E così successo in Francia con la vittoria di Macron non tanto nelle presidenziali quanto nelle legislative (a cui si devono aggiungere le elezioni indirette per il Senato!). In Germania, “la regina sorniona” Merkel – la definizione la rubo al titolo di un giornale francese – ha inseguito il suo avversario Schulz sulla politica migratoria e Schulz si è fatto trascinare dal tema dell’uguaglianza sociale che ha confuso con un illusorio ugualitarismo, anziché attrarre il suo popolo sul tema dell’europeismo come fattore di crescita nella solidarietà.
Al contrario, i simpatizzanti dell’AfD hanno ininterrottamente gareggiato sulla fuoriuscita dalla zona dell’euro, sulla politica anti-migratoria e soprattutto si sono richiamati al popolo, alla terra dei padri, alla sovranità nazionale, salvo ad apparire, a urne chiuse, più moderati, tanto da provocare immediatamente una scissione tra temperati e intransigenti.
Oggi più che mai l’interesse dello stato democratico si deve porre sopra a quelli partitici. In Germania la canceliera Merkel sarà facilitata dalle sue doti di dialogo per unire interessi contrastanti e poter formare il governo. Anche in Italia si sente questa necessità perché l’impreparazione, la superficialità, l’incoscienza di certe classi politiche fanno correre il rischio di minare la nostra democrazia.
Dopo le elezioni tedesche, il rafforzamento dell’Europa è diventato più difficile, ma il discorso che il presidente francese Macron ha tenuto davanti agli studenti della Sorbona è di alto livello sia sul piano della concezione culturale e spirituale dell’integrazione europea (“L’Europa è un’idea, le forme possono passare, ma l’idea resta”) sia sul piano delle proposte concrete. La vera Politica esiste e vive nella sua oggettività, si storicizza nel quotidiano, ma trascende il tempo perché, pur rispettando le regole del vivere democratico, dovrebbe approdare sempre a un fine: quello del bene comune. Quando la politica diventa arroganza tracotante a essere calpestata non è solo la democrazia, ma il buon senso e la ragione.
La finale della partita Europa vs. No Europa per ora è stata vinta dagli europeisti, ma forse occorrerà attendere la finalissima, che si giocherà prossimamente in Austria, per conoscere il suo futuro.
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