Il tema del buio è stato scarsamente frequentato in sede filosofica. Si tratta di uno stato complementare all’attitudine del silenzio, di cui ho scritto, come lo sono i sensi cui si riferiscono. Il buio si apparenta al silenzio perché entrambi conducono a un acquetarsi sereno nel tempestoso adattamento alla solitudine, all’isolamento, al sentirsi di colpo dispersi in un abisso senza ripari, senza sponde, senza più occhi né orecchie che ci ancorino a visioni e a suoni rassicuranti, usuali ma inessenziali.
Il pensiero occidentale, però, si è rivolto anzitutto alla luce molto più di quanto non sia stato associato al risuonare della parola. La polarità metaforica della luce e del buio ha riguardato l’intera cultura: la filosofia, la letteratura, l’architettura, le arti visive, la storia, la pedagogia e, naturalmente, la mistica. A propria volta, la luce ha avuto il proprio corrispettivo spaziale nell’altezza, nell’elevazione. La luce è l’alto cui tendere, la tenebra è il basso a cui dobbiamo sottrarci.
La luce svela e schiude l’oggetto della contemplazione; oppure, in quanto lumen naturalis, mette in chiaro, rende i concetti trasparenti, offre un contorno riconoscibile alle cose. In questa prospettiva unilaterale le tenebre, l’oscurità, il buio sono il negativo, la privazione della luce: abisso senza uscita; luogo di smarrimento e perdita; vuoto non misurabile, non decifrabile, imprevedibile e vagamente terrifico; e freno o velo a qualunque ordine di conoscenza.
Tra i filosofi antichi, Platone stabilisce l’equivalenza tra il Bene e la luce. In tutt’altra direzione, Aristotele identifica la luce con l’etere: una materia impalpabile, traslucida e trasparente che, pur avendo consistenza fisica, oltrepassa i quattro elementi e può filtrare la luce. La polarità oscurità–luce è uno dei passaggi cruciali del pensiero di Plotino. Il buio è l’irrazionale, il versante opaco proprio della materia, che non ha consistenza essenziale; la luce, al contrario, è il sovrarazionale, l’irradiazione che, come un fuoco perenne, promana dalle tre ipostasi: l’Uno (che equivale al Bene), lo Spirito e l’Anima.
La luce è in sé inesperibile, ma è la condizione che consente l’estasi, l’intuizione suprema; e la luce emana calore, è una forza attrattiva, una via verso l’alto che risale alle fonti dell’Uno e le coglie in una chiave mistica. Nella religione mitraica la luce diviene un vero e proprio oggetto di culto. E nel Credo, la dichiarazione di fede del cattolicesimo tridentino, Dio è definito «luce da luce».
La polarità luce-buio, ripresa dal cristianesimo, si scontra in verità con altre figurazioni filosofiche e religiose L’interiorità è stata spesso identificata come uno scavo. La profondità è l’obiettivo della ricerca interiore. Ciò che è definito basso per qualità non equivale alla profondità. Elevazione e discesa si completano molto più di quanto non si oppongano.
Vi è un riscontro anche nelle architetture. Il cristianesimo europeo ha elevato cattedrali, non necessariamente sviluppandole soltanto in verticale. Sino al XII secolo, anzi, il romanico più puro – quello che incontriamo ad esempio a Jaca o a Fromista lungo il Cammino di Santiago – ha lasciato filtrare la luce esterna da minuscole finestrine laterali e absidali in alabastro: venendo dall’esterno, l’occhio deve assuefarsi quanto basta per cogliere nell’oscurità ben più delle «cinquanta sfumature di grigio»: a dominare è l’orizzontalità, la contenuta espansione della pianta e, il percorso.
Le chiese ortodosse meno sfarzose e soprattutto le antiche chiese armene sono impregnate di oscurità. In Armenia chiese millenarie ricevono luce da piccole finestre laterali, da un qualche lucernario o da un accesso spesso protetto da un pronao; le pietre si impongono con i loro grigi, un senso di schiacciamento invade il visitatore, tutto sembra spento se non gli ori delle icone, che lentamente si accendono all’occhio e additano le tracce delle fonti di luce che non abbaglia e non ferisce e che smorza ogni passione nell’abbandono. A Lalibela, in Etiopia, le chiese copte sono addirittura scavate nella roccia; con un colpo di genio dettato anche dalla necessità di proteggere gli edifici e la vita dei monaci, anziché aggiungere verso l’alto lì si sottrae verso il basso. Lentamente la vista si adatta, ma l’esigua luce che penetra dalle minuscole feritoie è in balìa delle ore del giorno, del grado di obliquità dei raggi del sole.
Senza andare così lontano, i nostri lettori possono avventurarsi nell’installazione di Maria Nordman nelle scuderie di Villa Panza: sulle prime il buio è pesto, non si trova più l’entrata e non si coglie ancora l’uscita. Lo spaesamento è totale, e occorre tempo per orientarsi di nuovo. Un’esperienza ancora più forte è quella che la Fondazione Don Gnocchi ha allestito nel palazzo della Provincia di Milano: il buio, attenuato nella zona d’accesso, diventa ben presto totale.
La persona non vedente che accompagna si muove a proprio agio, e aiuta il visitatore a scoprire il campo percettivo consentito dalla cinestesia, dalla complementarità dei sensi che nel movimento sostituiscono la vista, in particolare il tatto, l’udito e persino l’olfatto. In ambedue i casi l’impatto emotivo sul visitatore è molto forte.
Una riflessione originale sul buio è stata svolta da Maria Zambrano. Secondo la pensatrice spagnola, sfuggita alla persecuzione franchista e molto legata all’Italia, l’oscurità ci accompagna verso ciò che è più segreto e nascosto. Nelle pieghe dell’oscurità il pensiero si fa carne e sangue, è «vita che scorre nascosta», tra fluidità e calore. Il buio è la figurazione del percorso carsico della conoscenza che è uno strumento per la vita, e che costituisce nel suo significato non uno svolgimento, bensì un’apertura all’ignoto. Il buio, la penombra, è una forza metamorfica, una risposta che ci induce ad osare, a tentare, a cambiare o correggere la direzione, a liberare un «conato di vita».
L’oscurità contiene un mistero che va custodito senza la pretesa di portarlo alla luce, svelarlo e dispiegarlo. Il segreto dell’oscurità somiglia a una notte traversata dai sogni, a un germoglio, a un risveglio. Il buio consentirebbe una maggiore prossimità a se stessi che non la piena luce.
Zambrano immagina un passaggio disvelatore dal bosco oscuro ai chiari del bosco, a radure incontrate all’improvviso e per caso, nelle quali i raggi si infilano obliqui, di traverso e non dalla cupola del cielo. La penombra è un passaggio aurorale. La dea Aurora è sorella della Notte, è il parto del buio, non ancora l’annuncio del nuovo giorno. Leggiamo in Chiari del bosco: «Solo nella penombra, tra le ombre, annida la liberazione anche per il sole: la liberazione dal suo proprio regno che con il suo potere imprigiona anche lui».
José Saramago, nel suo capolavoro, Cecità, immagina il diffondersi di un’epidemia di cecità bianca e lattiginosa, che non risparmia nessuno, salvo una donna. L’epidemia scuote l’ordinamento sociale e politico, e chiama a vederne le malattie, i difetti, i guasti e le ingiustizie. In una società dominata (se non addirittura ossessionata) dalla visione ma acquiescente a un generale conformismo, l’epidemia di cecità strappa il velo della cecità sostanziale che ci avvolge.
Una sorta di seconda vista si fa avanti in luogo dell’usuale vedere, addomesticato e passivo, che è sprofondato in quella virale lattiginosità dove a fatica si riconoscono vaghe ombre; e sono le donne, in virtù della marginalità del loro antico sguardo subordinato, a fruire di quella seconda vista, a ricostruire telai di solidarietà, a ritrovare una dialettica di domande e di idee, fino a restituire senso a parole ormai avvelenate dal non senso, benché zuccherose, come la partecipazione civile, l’uguaglianza, la democrazia, l’individualità.
Nell’avvincente narrazione di Saramago l’epidemia di cecità diviene il sinonimo di un bagno di realtà nell’evanescenza di valori fatui e vuoti, di una riconversione esistenziale individuale e collettiva: una specie di rivoluzione pacifica ha corso grazie a una sottrazione dello sguardo che dapprima sperimenta il proprio non aver saputo vedere e infine ritrova un punto di vista che coglie le cose e le riposiziona in un senso che non è quello predeterminato dagli ordinamenti di potere. Lo smarrirsi diviene un ritrovarsi.
Nel buio la luce, dunque; e mediante il buio una catarsi, un riorientamento. Come nel silenzio, il buio chiede l’attesa: viene a noi di colpo, ma lo possiamo penetrare solo lentamente, attraverso un processo di adattamento e di assuefazione; e il destarsi al termine della notte accade senza che sia stato cercato, voluto, predeterminato. Ambedue le attitudini pretendono da noi una paziente remissione attiva, uno stare dappresso a noi stessi in una sospensione senza angolosità e senza angoscia.
In fondo è il nero il colore più luminoso.
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