Molti lo ricordano ancora. La sua faccia, pacifica e contornata da una vaporosa nuvola di capelli bianchi, si stagliava sul profilo geografico dell’Italia. Per molti anni, quella faccia era legata alla rotonda forma di un formaggio, prodotto, a partire dal 1906, dall’azienda milanese di Egidio Galbani. «Bel Paese», così si chiamava quel formaggio. E il suo nome era un omaggio a quel volto, che finiva sempre fatto a pezzi dal coltello del salumiere. Quel volto apparteneva ad Antonio Stoppani, l’autore di uno dei libri, che, insieme al Cuore deamicisiano, hanno contribuito a formare il senso di appartenenza al nuovo Stato italiano. Il bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia, si chiamava la sua opera più nota, pubblicata nel 1876 e destinata ad avere un duraturo successo. Stoppani era un sacerdote originario di Lecco, che si era applicato allo studio della geologia e della paleontologia. In quella sua opera immaginava che un personaggio raccontasse al suo nipotino, nell’arco di 34 serate, ciò che aveva avuto modo di vedere durante i suoi viaggi. Per la prima volta, gli italiani potevano avere una descrizione dettagliata delle meraviglie della penisola, potevano provare ad immaginare i luoghi e i paesaggi di quel loro nuovissimo e antichissimo Bel Paese.
C’è una pagina di quest’opera (che ancora oggi si pubblica), in cui il narratore, muovendosi in treno dalla stazione di Milano, può osservare, tra gli sbuffi di vapore della locomotiva, il maestoso paesaggio delle Prealpi: «Vedevo passarmele davanti in rassegna, quasi un esercito di giganti. Primo il mio Resegone colle creste dentate; poi le due Grigne slanciate verso il cielo a foggia di piramidi; poi l’acuto Bisbino, e dietro a lui il massiccio Generoso; poscia il gran dente del Poncione di Ganna, e in ultimo il Campo de’ Fiori, che digrada per una serie di colli fino alla sponda del Lago Maggiore».
Il paesaggio che Stoppani descriveva centociquant’anni fa, ancora oggi è visibile quando viaggiando in treno da Cadorna verso Varese, più o meno all’altezza di Saronno, per un breve momento le case e i palazzi sembrano arretrare discretamente per lasciare il posto ad una pianura che risale verso l’arco alpino.
Il paesaggio, ha scritto Remo Bodei (Paesaggi sublimi, 2008), non è “natura”: «è cultura proiettata su montagne, oceani, foreste, vulcani e deserti». Il paesaggio è cioè il risultato dell’azione dell’uomo sulla natura.
Riflettere quindi sul paesaggio, come si farà nei prossimi giorni a Varese in occasione del festival «Nature urbane», significa riflettere sulla storia di questo nostro territorio per cercare di recuperare un filo conduttore con il passato e provare ad immaginare una direzione da imprimere al futuro di questa città. Spesso, come sappiamo, il rapporto tra la città ed il contesto naturale nel quel essa è collocata è stato conflittuale e contraddittorio. C’è un piccolo, curioso episodio delle cronache passate che appare oggi emblematico.
Sul finire dell’estate del 1926, ebbe luogo a Milano la prima sessione del V Congresso internazionale della Strada. Per l’occasione, giunsero nella capitale lombarda quasi 2mila partecipanti, in rappresentanza di 52 Paesi. Dopo tre giorni di relazioni e conferenze, ai congressisti fu offerta la possibilità di svagarsi con una gita in automobile. Un lungo corteo di veicoli, raggiunto viale Sempione, infilò l’Autostrada dei Laghi all’altezza della Certosa di Garegnano. Era questa la prima autostrada del mondo, ideata e realizzata da Piero Puricelli conte di Lomnago, ed era stata inaugurata alla presenza del re Vittorio Emanuele III appena due anni prima, il 21 settembre 1924.
Giunti a Varese, i congressisti fecero sosta presso l’Hôtel Excelsior, cioè Villa Recalcati, attuale sede della Provincia e della Prefettura. A sera, mentre il sole tramontava alle loro spalle, gli ospiti percorsero nuovamente i 50 chilometri di strada asfaltata per fare ritorno a Milano.
Il viaggio di andata era stato apprezzato da tutti: la strada, liscia, pulita e senza polvere, aveva addirittura offerto la possibilità di lanciare le automobili alla massima velocità. Entrati a Varese, però, l’entusiasmo si era tramutato in stupore e sconforto. Approssimandosi al centro cittadino, caratterizzato da un dedalo di viuzze anguste, sterrate e senza marciapiedi, ad ogni largo le automobili si erano imbattute in «improvvisi e impaccianti agglomerati di gente e di veicoli, con aspetti di sagra rurale»; dappertutto «polvere, confusione e segni di disordine e di dubbia pulizia».
Raggiunto faticosamente il parco del grande albergo, solo allora lo sguardo dei gitanti poté trovare sollievo, abbracciando «da un lato il placido lembo di lago e il panorama a perdita d’occhio della pianura ubertosa, irta di ciminiere e solcata d’acque; dall’altro lo scenario delle Prealpi a gironi di boscaglie folte, e tutt’intorno verde e fiori, fiori e verde e parchi e giardini e un ondeggiamento lieve di colline punteggiate di ville, come un manto ricamato di pietre preziose». E, a maggior ragione dopo tale visione, gli ospiti stranieri si chiesero come mai per raggiungere un tale «paradiso» si dovesse attraversare «con tanto fastidio una città tanto trascurata».
L’impressione che ancora oggi si ricava entrando in città dalla stessa autostrada, non è molto diversa da quella che ebbero quei viaggiatori del 1926. Non ci sono più viuzze polverose e fangose, ma l’impatto visivo è ugualmente desolante.
Ci auguriamo che questo festival possa riportare al centro della discussione politica e dell’attenzione pubblica la riflessione su come la città dovrebbe virtuosamente dialogare con l’ambiente in cui è collocata. Per correggere, eventualmente, le brutture che la storia ha depositato sul presente ed evitare che in futuro il viaggiatore di passaggio debba ancora una volta domandarsi come mai, per poter godere della visione di una cornice naturale così incantevole, si debba attraversare «con tanto fastidio una città tanto trascurata».
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