Ho un ricordo nitido del giorno in cui mio padre, rientrando a casa, annunciò trionfante: “Adesso abbiamo la Freccia del Sud!”. La mamma ed io lo guardammo senza capire. “È un treno – continuò entusiasta – che da Milano ci permetterà di arrivare direttamente a Paola, senza cambi intermedi”. Mia madre, che non amava andare in Calabria, disse “Ah”. A me, bambina, quel nome, Freccia, spalancò invece scenari insospettati: paesaggi western, avventure imprevedibili.
Tutto ciò oggi fa sorridere, ma prima che venisse istituito quel treno, negli anni ’50, raggiungere il paese di mio padre, in Calabria, era davvero un’impresa. Era un viaggio che facevamo ogni estate alla chiusura delle scuole e ripetevamo, in senso inverso, alla fine di settembre. Ci ripensavo durante il mese d’agosto trascorso in città, ripercorrendo nel ricordo tutte le tappe del tragitto. E capivo perché mia madre avesse manifestato con quell’”Ah” il massimo del suo entusiasmo.
Prima tappa: Varese – Milano e cambio stazione. Beh, come adesso, del resto.
Seconda tappa: Milano centrale – Roma. Salire sui treni e prendere posto non era semplice: le valigie erano pesanti, di cuoio, ovviamente senza rotelle; i vagoni spesso affollati, ed era necessario affrettarsi. Esistevano i “facchini” allora, più elegantemente detti “portabagagli”, che caricavano le valigie su carrelli oppure le trasportavano a mano, e rapidamente si dirigevano al binario di partenza. A volte, ma non sempre, salivano a sistemarle sulle reticelle dello scompartimento. Ma quando non si trovavano facchini liberi bisognava arrangiarsi da soli. Un problema che si ripresentava ad ogni cambio di treno.
Terza tappa: Roma – Napoli. I treni dell’epoca avevano tre classi: la terza aveva sedili di legno; la seconda era divisa in scompartimenti e aveva sedili imbottiti e rivestiti di un dignitoso tessuto grigio – verde a righe. Ma la prima! La prima vantava sedili di velluto rosso e pochi passeggeri eleganti e silenziosi. Noi viaggiavamo in seconda, come si conveniva a persone della piccola borghesia, ed io, che non avevo ancora maturato una coscienza sociale, ero combattuta tra la soddisfazione di non viaggiare in terza e il desiderio irrealizzabile di sedermi su uno di quei divani di velluto rosso.
Quarta tappa: Napoli – Paola. La meta poteva sembrare vicina. E invece no, perché il treno su cui dovevamo salire era a vapore, e, giunti a Paola affumicati e stravolti, dovevamo affrontare ancora due tratte.
Quinta tappa: Paola – Cosenza. Qui, di solito, ci fermavamo per qualche ora di riposo a casa di parenti, dove potevamo toglierci di dosso la fuliggine e bere l’acqua che, a detta di mio padre, era la migliore del mondo.
Sesta e ultima tappa: salivamo sulla littorina che da Cosenza ci portava al paese – circa 50 chilometri – in poco meno di un paio d’ore. Appena posato il piede sulla banchina, papà inspirava profondamente ed esclamava “Senti che aria buona!”. E mamma rispondeva “Mmm” con lo stesso entusiasmo con cui aveva detto “Ah”. Era il tardo pomeriggio. Eravamo in viaggio dalla mattina del giorno precedente. Ecco perché la Freccia del Sud poteva cambiarci la vita.
A quel punto ci veniva incontro un carretto trainato da un mulo. Ma non era per noi, doveva trasportare i bagagli. Noi ci incamminavamo a piedi lungo un sentiero polveroso, tra ciuffi di cicuta e siepi di rovi dove già maturavano le more.
A casa ci aspettava zia Isabella, con la cena pronta ed un cestino colmo di fichi freschi. Ma questa è un’altra storia.
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