Erano le ombre lunghe e umide che accompagnavano la merenda, il sole che il Mondonico ci rubava sempre più presto, la voglia di minestra la sera che decretavano lo spegnersi dell’estate e l’avvicinarsi della scuola. Non so i nostri coetanei, ma a noi, da metà settembre, le vacanze cominciavano ad andare strette.
Si viveva col cuore diviso, innocuo preambolo di quanto sarebbe stata complessa la vita: il dispiacere di lasciare la grande casa dagli angoli bui e misteriosi, il giardino, l’altalena e la bicicletta, le mattinate al lago. Ma insieme ti prendeva la smania di riavere la tua cameretta, il pianoforte, la luce che a fiotti inondava il nostro quarto piano; di rivedere la maestra, le compagne, gli amici di città; ti solleticava la prospettiva di libri intonsi, quaderni nuovi, nuovi rotoli di carta Varese, diari vergini e un astuccio fiammante. E perfino la tv, di cui peraltro nessuno aveva avuto nostalgia nella lunga estate. Credo che sotto sotto ci fosse il desiderio di ritrovare ordine, ritmo, routine dopo l’abbuffata di libertà, dono inestimabile ma faticoso, che le vacanze ci avevano regalato.
E così, gli ultimi giorni, scalpitavamo per la smania del ritorno. I più tristi erano i nonni: anzi, il nonno. I miei erano impazienti di ritrovare una loro intimità, dopo una convivenza stretta non sempre facile; e la nonna troppo indaffarata con pulizie di fino, valigie, bauli, ricovero di sdraio tavolini dondoli ombrelloni vasi e cassette di fiori.
Penso invece – certo non lo diceva – che al nonno spiacesse non avere più i nipotini per casa, e doversi fare una bella camminata per venire a trovarci, quasi all’altro capo della città. Già silenzioso di suo, lo diventava ancora di più. Me lo vedo come fosse ieri: seduto nella poltroncina di vimini, un po’ chino in avanti, elegante come sempre colle sue bretelle a bottoni e la camicia candida dalle maniche sbuffanti, a fissare le fiamme nel camino. Perché in quelle ultime serate in campagna, una fiammata la si doveva dare, e il camino che tirava meglio era quello del salotto. (Anche se sistemato curiosamente ad angolo, tanto che ci si poteva stare davanti solo in due o tre, e pure strettini). Al fuoco ci pensava lui – guai a intromettersi – in una sequenza di gesti antichi e immutabili: prima i ceppi a catasta, con uno spazio abbastanza ampio sotto per il giornale accartocciato; poi, intorno, la legna media; infine, sul fondo, nel buco rimasto, i rametti e la carta per fare da esca. Un colpo di fiammifero, e la stanza buia si accendeva di arancio e rosso, le fiamme che danzavano vive in un affascinante contorcersi sempre nuovo. Lui stava lì, con le molle a portata di mano: spostava un ceppo, riacciuffava un tizzone ribelle, rimestava il fuoco. Buttava di quando in quando un rametto di pino che scoppiettava in una miriade di scintille. Noi ci accucciavamo vicino, sperando in qualche storia del passato: ma stavamo bene anche in silenzio, tanto il fuoco riempiva gli occhi e le orecchie: di calore, luce, scoppi, sussurri, sfrigolii, borbottii.
Passava la nonna, sbuffando: Te fee lì, Fausctìn… L’è mia ura de naa ‘n lecc?
E il nonno solenne: Va ti, se te voeret…. Mi gh’ho de vardà ‘l fuegh!
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