Si racconta che dentro il Pd tirino venti di fronda contro Renzi e a favore di Gentiloni. Non paga dei danni subìti dalla scissione della livorosa coppia Bersani-D’Alema, una parte dei democratici prova a farsi ancora più male. Che cosa di meglio che azzoppare il segretario, precludergli velleità da candidato premier, spaccare di fronte all’opinione pubblica un partito ritenuto (evidentemente) non ancora abbastanza sprovvisto di credito?
Per fortuna, non solo del Pd ma del Paese, pare che i due, Renzi e Gentiloni, abbiano stretto un solido patto: si va avanti insieme fino al voto, chiudendo con dignità la legislatura nell’interesse degl’italiani e poi lavorando, nell’interesse del Pd, alla scelta della strategia migliore per tentare la riconquista di Palazzo Chigi. Meno male.
La chiacchiera offre lo spunto a un quesito: come va giudicato il governo Gentiloni, da dicembre a oggi? Si pose tre obiettivi. Due li ha centrati, uno no. O almeno non ancora. I primi due erano: vigilare sulla ricostruzione post terremoto, ottimizzando l’uso delle risorse messe a disposizione ed evitando il compiersi di errori/approfittamenti; accompagnare, con adeguate misure, la ripresa economica, di cui si cominciavano ad avvertire deboli cenni. Il terzo era: facilitare il percorso della riforma elettorale, che Mattarella definì indispensabile/urgente dopo la bocciatura del referendum costituzionale. Gentiloni ha facilitato nulla. Vero che a far la legge tocca al Parlamento, tuttavia il governo può, se vuole, sollecitarne l’impegno.
La situazione è la seguente. Pd, Forza Italia, Cinquestelle e Lega avevano trovato un’intesa su un sistema a prevalenza proporzionale, detto Tedeschellum o Germanicum. Ma l’8 giugno, votando alla Camera un emendamento relativo ai collegi speciali del Trentino Alto Adige, i franchi tiratori -di provenienza grillina, secondo gli osservatori di Montecitorio- la incenerirono. D’allora in poi, nessun segnale di praticabile nuovo accordo. Se zero dovesse accadere, e salvo un nuovo intervento della Consulta in supplenza della politica, si tornerebbe alle urne con due leggi elettorali diverse, una per il Senato e una per la Camera. Quest’ultima l’Italicum renziano corretto dai supremi giudici. Proprio ciò che il presidente della Repubblica non vuole, insistendo per un’armonizzazione finora latitante.
Gentiloni darà finalmente la scossa? Non sembra il tipo, né averne l’agio/la convenienza. Congiurano a suo sfavore due situazioni: 1) la dispettosa resistenza di gran parte dei parlamentari a licenziare un provvedimento che li manderebbe a casa per sempre, dato che i ricandidati dell’attuale consesso bicamerale nelle prossime liste sarebbero ben pochi; 2) l’intenzione del Pd d’allungare i tempi della conclusione della legislatura anziché restringerli, nella speranza d’una risalita nel consenso popolare, attualmente indicato dai sondaggi inferiore a quello di M5S e centrodestra.
Perciò il premier andrà cauto. Andrà di concerto con Renzi. Andrà fidando in una contingenza a lui politicamente/personalmente propizia. Se infatti il sistema elettorale rimarrà d’impronta proporzionale e le alleanze governative si stringeranno dopo il voto invece che prima, Gentiloni vanta ottime probabilità di succedere a sé stesso. Non ci sarà bisogno di dichiarare la guerra a Renzi. Renzi si metterà il cuore in pace da solo.
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