A Zaccaria non resta che benedire il re redento dalla nuova fede: così termina Nabucco, l’opera con cui Verdi, a ventinove anni, trionfò alla Scala di Milano. Ora ci interroghiamo se la particolarissima rivisitazione scenica che ha caratterizzato la stagione 2017 all’Arena di Verona possa essere laicamente benedetta e se le novità interpretative diano fiducia alla cultura, come capacità di redenzione dalla trappola di chiusura al mondo.
Ma andiamo con ordine. Nabuccodonosor, dramma lirico secondo l’esatta definizione, ha un intreccio grandioso: la vicenda si svolge tra l’antica Gerusalemme della Bibbia e la reggia e i giardini pensili di Babilonia nel VII secolo a.C. E’ un’opera intensa e particolare: quasi in ombra il ruolo del tenore, mentre il basso, il gran sacerdote Zaccaria, vibra e dialoga con il coro e il baritono, cioè Nabucco, coglie i sentimenti legati al potere, all’orrore e al dolore di un padre. Lo spartito è- come si legge nella Gazzetta Musicale del 1842 – lavorato con tutto amore d’arte del compositore.
Per rispetto di chi conosce il libretto non è qui opportuno riassumerne la storia ma cogliere l’occasione per condividere alcune riflessioni anche con chi non ha avuto l’opportunità di assistere alla rappresentazione all’Arena di Verona,vivendo quelle emozioni ( e chiamale se vuoi o puoi emozioni) che solo il più grande teatro lirico del mondo può far nascere. Si sa che l’Arena nella sua storia – almeno quella dall’Ottocento in poi- è stata sede di vari momenti particolari: dalla direzione d’orchestra di Gioacchino Rossini in occasione della conclusione del congresso di Vienna (l’ esecuzione aveva il significativo titolo Santa Alleanza) alle esibizioni del circo con Bufalo Bill e che è sempre stata caratterizzata da una grande spettacolarizzazione scenografica delle opere spesso in cartellone, come lo è stato Nabucco già dagli Trenta del XX secolo. E qui per ritonare alla premessa cominciano le domande.
E’ quasi inevitabile che lo spettatore dell’Arena sia desideroso di lasciarsi calamitare più da scenografie imponenti, grandiose e uniche che non dalla forza della musica. Per inciso sempre nella Gazzetta del 1842 vi sono commenti che, oltre a definire il Nabuccodonosor Nabuccotton, per la cospicua presenza di ottoni, evidenzia la bellezza di certi passaggi musicali che, forse, non tutti possono gustare all’Arena. E poi si sa che il Nabucco è celebre ma ha poche pagine celebri, ad eccezione del coro dell’atto Terzo, in cui gli Ebrei, piangendo la patria perduta, trasformano la loro nostalgia in canto: Va’ pensiero sull’ali dorate. E per l’appunto volano anche i nostri pensieri, magari non del tutto dorati.
Certamente i cori sono l’elemento caratterizzante questa opera verdiana, classicamente innovativa. Per inciso è giusto ricordare come la funzione del coro nel melodramma fosse oggetto di riflessioni culturali. Basti pensare al saggio Filosofia della Musica di Giuseppe Mazzini in cui il fondatore della Giovine Italia, anche appasionato suonatore di chitarra, proponeva di dare forza autonoma ai cori lirici. Ma ritornando al celeberrimo coro verdiano, che all’Arena è applaudito anche nel bis dovuto e che fu cantato da ben novecento cantori sotto la direzione di Arturo Toscanini quando le salme di Verdi e di Giuseppina Strepponi furono traslate dal cimitero monumentale alla casa di riposo Verdi, fu accolto tiepidamente alla prima esecuzione del 1842. Per alchimie storiche si trasformò poi in un coro con valenza patriottica e come tale – spesso- viene inglobato in una lettura mitica ( e quindi mal interpretato) del Risorgimento.
Da questa suggestione patriottica ( ansia di liberazione di un popolo e manichea contrapposizione di buoni e cattivi) il regista Arnaud Bernard ha proposto una provocatoria rilettura scenica del Nabucco, ambientandolo a Milano durante le Cinque Giornate. Al centro della scena domina il teatro alla Scala, il coro è intonato all’interno del teatro stesso, facendo dimenticare l’Eufrate, i Leviti, gli Ebrei e i Babilonesi. Il pubblico applaude al Kolossal e accetta la provocazione, dimenticando che la storia deve sempre dialogare con la geografia.
Cui prodest? Alla storia? A scuotere le nostre coscienze? A rivitalizzare l’opera? Potremmo dire, come Capuana spesso concludeva le sue storie siciliane di C’era una volta,noi restammo come cetrioli …. C’era una volta, ma c’è e speriamo che ci sarà sempre l’amore per la musica. Una musica che sappia donarci autentiche emozioni.
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