Zia Isabella era morbida. E’ questo il primo aggettivo che mi viene in mente quando penso a lei, una delle persone della mia infanzia che ricordo con maggior affetto. La ritrovavo ogni estate nella casa in Calabria, la casa di mio padre, dove lei abitava tutto l’anno. Piccolina, rotondetta, sempre vestita di nero, si muoveva con brevi passi frettolosi. Mi ricordava la fata di Cenerentola nel film di Walt Disney.
Era nata sul finire dell’Ottocento e quando la conobbi aveva già una sessantina d’anni e due nipoti, che diventarono subito miei compagni di giochi e di innocenti insolenze nei suoi confronti. La sua camera era in un angolo della casa, assolutamente preclusa a noi bambini, che dovevamo rispettare la sua intimità. Noi, però, riuscivamo lo stesso a sbirciare quando si pettinava, seduta alla toilette. Ci sembrava di assistere ad uno spettacolo: aveva capelli di un colore indefinito tra il bianco e il verdognolo; li spartiva sulla fronte con una diritta scriminatura e li acconciava in due trecce lunghe e sottilissime che, dopo alcuni giri, fissava sulla sommità del capo come una corona.
Rideva spesso, rideva con la voce e con la pancia, che le ballonzolava ad ogni sussulto. Raramente rideva con gli occhi.
Per noi bambini vederla ridere era un gioco, così come sentirla sbadigliare ed imitarla: modulava con la vocale “a” tutta la scala cromatica discendente, e lo faceva anche nel cuore della notte, svegliando la casa intera. Le nostre mamme ci intimavano di lasciarla in pace, di portarle rispetto, ma lei non si risentiva, anzi si divertiva con noi; e forse quelli erano gli unici momenti in cui rideva anche con gli occhi.
Non aveva avuto una vita felice. Aveva sposato un cugino di papà, che era morto quasi subito combattendo durante la Grande Guerra, giusto il tempo di concepire un figlio che non avrebbe mai conosciuto. Lei tinse di nero tutti i suoi abiti. Uno, probabilmente il migliore, lo ripose in un armadio e comunicò ai parenti più stretti che era quello con cui voleva essere seppellita. Da sola crebbe il figlio e lo fece studiare, attuando un rigido programma di risparmio domestico.
Se qualcosa non andava secondo i suoi desideri o se qualcuno la criticava, si stringeva nelle spalle e non diceva nulla: zia Isabella era rassegnata. Non era, la sua, la rassegnazione atavica e inconsapevolmente eroica di Teresina (di cui ho raccontato su queste pagine in Sinale e maccaturi). Zia Isabella si era rassegnata suo malgrado, si era, per così dire, rassegnata alla rassegnazione. Il suo destino l’aveva immaginato diverso: fin da bambina aveva tessuto con il lino e coi sogni il suo corredo da sposa. Rimasta vedova, l’aveva chiuso in due bauli fino alla fine dei suoi giorni. Bauli inaccessibili: se doveva aprirli, si assicurava di essere sola. Tutti i parenti favoleggiavamo su ciò che potevano contenere, oltre al suo corredo; in realtà poco altro, e al tempo stesso tutta la sua vita.
Quando morì, suo figlio mi regalò, per suo ricordo, uno dei lenzuoli custoditi in quei bauli. Era di lino tessuto a mano e ricamato, mai usato. Ne ricavai una tovaglia, ornandola con un bordo all’uncinetto come avrebbe fatto lei, che era bravissima in questi lavori. Ogni volta che la uso, rivedo quella piccola donna rotonda, la sua risata sussultante, e sorrido pensando a quanto acciaio si nascondesse sotto la sua morbidezza.
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