La notizia è stata data dal «Corriere veneto» il 17 agosto scorso. Un uomo di 56 anni, padre di due figli, con un lavoro ed un ruolo politico importante nel suo paese in provincia di Padova, scrive su Facebook: «Arrivi a un punto della vita in cui ti chiedi se restare o no, io non resto». Nessuno dei suoi 4mila “amici” virtuali ritiene di doversi preoccupare. Nessuno di quei 4mila “amici” virtuali pensa per un attimo ad uscire dall’universo digitale dei social network per entrare, solo per un attimo, nella realtà atomica, quella fatta di carne e ossa, e prestare attenzione a quel grido di aiuto. Nove ore dopo aver pubblicato il suo post, nove ore dopo aver affidato il suo messaggio alla comunità immateriale più vasta del nostro tempo, quel lavoratore, padre di due figli e con 4mila “amici”, si è impiccato.
Il 13 marzo del 1964, alle tre e un quarto di notte, Catherine Genovese, detta Kitty, stava rientrando a casa. Aveva 29 anni. Aveva appena parcheggiato l’auto ad una trentina di metri da casa sua, un appartamento nel Queens, quando fu aggredita da un uomo. Provò a scappare. L’uomo la inseguì e la accoltellò alla schiena. Per due volte. Kitty si mise ad urlare e la sua voce risalì lungo le pareti dei palazzi che si affacciavano sulla strada, penetrando attraverso le finestre chiuse. Nessuno reagì.
L’aggressore in un primo momento si allontanò. Poco dopo raggiunse nuovamente Kitty, che nel frattempo si era accasciata in prossimità dello stabile in cui risiedeva. L’uomo la raggiunse, la accoltellò nuovamente e poi, quando Kitty era ormai agonizzante, la violentò. Prima di andarsene, le sottrasse 49 dollari dalla borsa. La donna morì poco dopo, mentre veniva trasportata in ospedale su un’ambulanza. I giornali, il giorno successivo, riferirono che trentotto persone avevano ascoltato le urla di Kitty. L’inchiesta che seguì, giunse alla conclusione che almeno una dozzina di persone era stata testimone di quanto era accaduto. Nessuno aveva ritenuto di dover intervenire.
La vicenda di Kitty Genovese divenne un caso di studio per la psicologia sociale. Quattro anni dopo, nel 1968, gli psicologi americani John Darley e Bibb Latané condussero un esperimento finalizzato a studiare le reazioni delle persone in una condizione di emergenza. Alcuni studenti vennero fatti accomodare in una stanza chiusa per compilare un questionario. Successivamente, da una porta della stessa stanza veniva diffuso del fumo. Gli psicologi osservarono che nella situazione in cui il soggetto si trovava da solo nella stanza, questi usciva nel giro di pochi minuti per cercare aiuto; quando invece lo stesso esperimento veniva proposto in una situazione di gruppo, solo il 38% dei soggetti chiedeva aiuto entro i primi 6 minuti.
Questa condizione fu definita «ignoranza pluralistica»: all’interno di un gruppo, ciascuno pensa che gli altri componenti abbiano più informazioni sulla situazione in corso e così resta in attesa di capire come gli altri reagiranno. Da qui, la probabilità molto alta che nessuno faccia nulla.
Il fenomeno della ignoranza pluralistica è stato utilizzato per spiegare, almeno parzialmente, quello che fu definito «l’effetto spettatore» (Bystander Effect): in situazioni di emergenza, ognuno è in attesa di osservare le reazioni degli altri. Questo può generare una sorta di immobilismo (o di inazione). Gli psicologi giunsero ad affermare che, nei contesti in cui fosse necessario un tempestivo intervento, quanto maggiore è il numero degli spettatori tanto minore è la probabilità che qualcuno decida di prestare il proprio aiuto.
Non so se questa letteratura possa spiegare l’inazione ai tempi di Internet. Non credo sia sufficiente. È un fatto, tuttavia, che sta diminuendo in modo preoccupante la nostra reattività nelle comunità virtuali in cui trascorriamo gran parte della nostra vita. Non ci scandalizziamo se qualcuno inneggia allo stupro, se dileggia chi ha differenti orientamenti sessuali, se manifesta rabbia e odio verso rifugiati o migranti, se riempie la sua bacheca di simboli razzisti, neofascisti o neonazisti. Restiamo “amici”. E se per sbaglio ci viene scaricato addosso un brusco richiamo alla realtà, se per caso un grido di aiuto riesce ad affacciarsi sui nostri schermi… allora basta un clic o è sufficiente il rapido scivolare di un dito per allontanarlo dalla nostra attenzione. Indifferenti, ritorniamo a digitare compulsivamente sulle nostre tastiere o sui nostri schermi. Beati e soddisfatti del numero di “amici”, che coltiviamo come un piccolo tesoro. Pensando che, tanto, ci sarà sempre qualcun altro che si indignerà al nostro posto, che denuncerà la violenza verbale al nostro posto, che raccoglierà, al nostro posto, quel grido di aiuto che per un attimo ha attraversato anche il nostro monitor.
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