Di solito di un bel film resta impressa una scena, un dialogo, un ritratto di persona, un paesaggio naturale o umano. Del documentario sul cardinal Carlo Maria Martini del regista Ermanno Olmi, sceneggiato con la collaborazione di Marco Garzonio, è l’impronta dell’innovazione culturale diocesana che colpisce.
Nulla di sorprendente per chiunque abbia avuto modo di ascoltare e leggere l’arcivescovo che ha attraversato le fasi cruciali della nostra recente storia nella città italiana più creativa, vulcanica, contraddittoria. E’ irresistibile, tuttavia, l’impressione di trovarsi davanti ad una straordinaria personalità che per forza morale, profetica e civile non appartiene solo alla chiesa cattolica.
Non serve essere credenti per apprezzare “Vedete, sono uno come voi” in distribuzione anche nelle edicole per iniziativa del Corriere. Un’opera che fa capire molto bene l’appellativo di “cardinale del dialogo”, che mette in rilevo la profondità della sua riflessione e la sua audacia nel confrontarsi con i mali della società e anche con i difetti della chiesa. Forse le chiavi per spiegare il suo pensiero sono due, l’attrazione verso Gerusalemme: “Il centro del mondo, non città del conflitto ma della preghiera, del dialogo e dell’amore”. E il comportamento durante il concilio: “Via tutti gli onori, le pomposità, gli orpelli”.
Invece che descrivere il film con le mie parole cerco di far parlare il cardinale citandolo testualmente e ricorrendo solo a qualche semplificazione discorsiva. Rivolto ai genitori: “Quando sono uscito di casa a dieci anni ho imparato molte cose ma le poche che ho imparato da voi sono quelle più preziose”.
Preveggente la profonda angoscia di fronte alla dichiarazione di guerra il 10 giugno 1940: “Ascoltando che - martL’ora segnata dal destino batte il cielo della nostra patria – eravamo tutti muti, sgomenti, col fiato sospeso guardando un futuro pieno di ombre”.
Preoccupatissimo all’atto della nomina ad arcivescovo: “Non avevo mai fatto azione pastorale. Temevo di essere un burocrate che si staccava dalla realtà, invece mi sono ritrovato compagno di cammino con moltissime persone fedele al mio motto episcopale: per amore di verità, accettare le diversità”.
Sulla sua Milano, “Questa benedetta, maledetta città assediata da tre pestilenze: solitudine, corruzione, violenza. Milano era la capitale morale, divenne la capitale dei capitali con i partiti che rischiavano di divorare le Istituzioni. Ma questa era anche la sfida dei vescovi”. E lui l’ha combattuta con caparbietà e una volontà di ferro.
Emozionante il suo atteggiamento con i terroristi negli anni di piombo: “Pazza esaltazione collettiva, politica e ideologica. Basta, è ora di finire questo tragico e assurdo conflitto. Perché non cerchiamo un dialogo che possa portare ad un cambiamento e ad un pentimento reale? E il pentimento in parte ci fu. “Riceva, eminenza, la nostra spontanea rinuncia alle armi per la ripresa del dialogo interrotto“.
Nettissimo sullo “scandalo storico dell’ingiustizia sociale” che lo aveva portato a citare Heldèr Camara, l’arcivescovo brasiliano di Recife: “Se mi occupo dei poveri sono un sant’uomo, se spiego perché sono poveri sono un comunista. Bisogna non solo lavorare per il popolo ma lavorare con il popolo”.
Infine la sua frase più conosciuta e strumentalizzata quando fu pronunciata: “Occorre un cambiamento radicale cominciando da noi. La chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?”.
Queste sue frasi vanno contestualizzate ma il valore resta intatto e vanno, come lui auspicava “oltre le barriere del sapere alto” di cui era maestro.
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