Oggi, martedì 8 agosto, a Milano si celebra il funerale di Monsignor Dionigi Tettamanzi. Da non cattolico, ho sempre apprezzato le posizioni e le iniziative pubbliche dell’allora Arcivescovo di Milano in difesa degli ultimi. E fui all’epoca, nel 2004, particolarmente fiero che un messaggio dell’Arcivescovo Tettamanzi figurasse in apertura di un libro al quale anch’io avevo collaborato (era il volume pubblicato dalla varesina Lativa e dedicato ai novant’anni del periodico «Luce», che di lì a poco sarebbe stato chiuso).
Oggi tutte le forze politiche rendono omaggio all’uomo, all’uomo di Chiesa e a colui che fu per tutti un importante punto di riferimento morale negli anni in cui Forza Italia, Comunione e Liberazione e la Lega Nord spadroneggiavano in Lombardia attraverso una sistematica occupazione delle istituzioni e del potere. Con finalità molto poco politiche e molto poco etiche, come abbiamo scoperto in anni recenti.
Non ho trovato traccia, tuttavia, nelle cronache di questi giorni di un episodio che interessò Monsignor Tettamanzi e la città di Varese. Il 15 gennaio del 2009, Tettamanzi giunse nella Città giardino per incontrare i politici locali e confrontarsi con loro sulla crisi economica che da un paio di anni stava creando nuove sacche di povertà.
Circa un mese prima, in occasione della festività di Sant’Ambrogio, lo stesso Arcivescovo era stato fatto oggetto di un duro attacco da parte della Lega Nord. L’allora ministro Roberto Calderoli lo bollò come «uno degli ultimi baluardi del cattocomunismo», mentre gli ascoltatori di Radio Padania apprendevano che l’Arcivescovo di Milano era in realtà un infiltrato dell’eterno disordine mondiale con lo scopo di sovvertire la Chiesa dall’interno. Alle urla scomposte ed oscene della Lega, aveva fatto seguito, il 23 dicembre, l’atto dimostrativo di un eurodeputato leghista, di cui non sentiamo la necessità di ricordare il nome, il quale, per pochi minuti, riuscì a far sventolare dalle guglie del Duomo milanese uno striscione con la scritta: «No moschee».
A causare tali reazioni, era stato il tradizionale discorso che Tettamanzi aveva rivolto alla città di Milano il 5 dicembre, in occasione dell’imminente festa del santo patrono. L’Arcivescovo aveva invitato a riflettere su come stesse cambiando la capacità di dialogare anche in società tradizionalmente accoglienti come la nostra: «Sappiamo dialogare a Milano?» – si era chiesto e aveva chiesto ai suoi fedeli – «Osservando la nostra città ne ricavo sempre di più l’immagine di una grande città fatta da tante piccole isole, spesso non comunicanti tra di loro». Auspicava un approccio culturale nuovo nei confronti degli immigrati, così che gli interventi nei loro confronti non si risolvessero solo «con la delega a chi si occupa di assistenza» e non fossero motivati solo «da provvedimenti d’emergenza». E proprio perché uomo di fede, sosteneva la necessità di moltiplicare i luoghi di preghiera: «Abbiamo bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri, e ne hanno un bisogno ancora più urgente le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in modo particolare all’Islam».
Il 15 gennaio, dicevamo, Tettamanzi giunse a Varese. In prossimità della chiesa della Brunella fu accolto da decine di manifestanti, mobilitati dai Giovani padani, che esibivano striscioni ed urlavano slogan che definivano Tettamanzi «Vescovo di Kabul» e inneggiavano ad una «Varese ambrosiana, mai musulmana». Il sindaco della città, Attilio Fontana, annunciò che non avrebbe partecipato all’incontro.
Monsignor Tettamanzi fu oggetto di attacchi ancora più duri l’anno successivo. Nel dicembre del 2009, Roberto Calderoli, ancora e sempre ministro, arrivò a sostenere che «Tettamanzi con il suo territorio non c’entra proprio nulla. Sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia». E ancora una volta, lo scandalo era stato suscitato il discorso di Sant’Ambrogio. In quella occasione, mentre sul capoluogo si allungavano minacciose le ombre dell’Expo, l’Arcivescovo sostenne che «Per rendere grande Milano non bastano i grattacieli e le nuove infrastrutture. Puntare tutto sulle campagne di immagine significa nascondere i problemi concreti. La vera ricchezza di una città sono gli abitanti. Bisogna riscoprire la solidarietà».
Oggi tutti piangono la scomparsa di un Arcivescovo, che in realtà la politica lombarda aveva in larga parte osteggiato quando non addirittura vilipeso. Oggi, nel momento in cui anche una certa sinistra istituzionale o di governo sembra aver smarrito le coordinate culturali entro cui sviluppare un’azione o almeno un’idea di cambiamento, non sarebbe inutile, proprio nel giorno dell’estremo saluto a Dionigi Tettamanzi, provare a rispolverare parole come «solidarietà» e «accoglienza» e smetterla, almeno per un momento, di continuare ad alimentare spettri e paure, smetterla, almeno per il tempo di un ragionamento, di speculare sulle tragedie umane per tentare di rosicchiare qualche manciata di voti. Di sciacalli, lo spazio della politica italiana, è già fin troppo affollato.
Enzo R. Laforgia
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