S’era fatto all’inizio del Tour un possibile paragone fra la validità del Giro – per la verità privo di gemme brillanti – e del probabile prevalere della qualità della Grande Boucle.
In realtà le due situazioni non si sono differenziate più di tanto: sonnacchiosa l’una e poco meno anche l’altra.
Qualche scrollone in più in terra di Francia magari a opera di un Contador la cui distanza dalla vetta in classifica poteva bene favorirgli qualche permesso.
Niente di niente invece dai primissimi della graduatoria il cui minimo distacco l’uno dall’altro avrebbe pur potuto consigliare qualche tentativo di ridurre i distacchi o aumentarli invece s’è preferito stare rigorosamente e totalmente sulla difensiva quasi a considerarsi una leccornìa i pochi secondi.
Tutti, dunque, a stare sui pedali senza pretese di modifica.
Lo stesso Froome ha preferito tenersi i vicini di casa senza pretese di sfrattarli.
Parliamoci chiaro, però. Se c’era uno che da simile tattica attendista aveva tutto da guadagnare era proprio lui.
L’affezionato ai colori del girasole semmai toccava agli altri la contro carica. E non si dica che Froome aveva a disposizione la squadra più forte, impegnata a circondare il suo capo.
Era così in effetti ma che qualcuno si sia scomodato anche solo per un tentativo di sfondamento è fuori di luogo anche solo possibile pensarlo.
Il vero sconfitto, alla fine, è stato il nostro Aru sicuramente senza aiuto di squadra ma altrettanto sicuramente senza anche l’aiuto di forze quando è suonata la carica per le posizioni di vertice che si erano stabilizzate.
A questo punto tutti si sono mossi conquistando cumulativamente qualcosa ma solo a danno del nostro.
È stato, quello del tricolore un piccolo calvario fatto di continue perdite di contatto con il gruppo degli interessati, e, poi, a conclusione, di getto della spugna con irrimediabile addio al secondo posto in classifica ed al podio forse esageratamente sperato.
Senza affondare il coltello nella piaga, ma piuttosto con tristezza, di un ridimensionamento del corridore bisogna pur dire che un conto è il titolo italiano altro conto il Tour.
Forse proprio il tricolore ci aveva un po’ illusi.
Soprattutto si era ecceduto nelle speranze su un giovane ancora da affinare. Che poi al termine della corsa si sia parlato di buona prova di Aru è in netta antitesi con l’esagerazione fatta in precedenza. La prova di Aru è accettabile: l’errore si è fatto prima nella valutazione.
Quale siparietto al Tour i francesi hanno confermato il vizietto fatto dal possesso di una certa antisportività nei confronti di qualche partecipante straniero vestitosi di giallo.
Stavolta è toccato a Froome che si è beccato una buone dose di fischi nelle ultime giornate.
La musica non è nuova. Svariati anni addietro era toccato agli italiani presenti con due squadre nazionali e non di casa.
In maglia gialla era Fiorenzo Magni e continue erano le vittorie di tappa dei “nostri” sia dell’una come dell’altra delle due rappresentative italiane.
L’ira – con qualche fondamento pur sempre non apprezzabile – era venuta dalla tattica di gara dei nostri gregari puntualmente pronti a turno a mettersi alla ruota di ogni avversario in fuga senza tirare un solo centimetro e battere tutti sul traguardo.
I tifosi e i media li chiamarono “succhiatori di ruote” insultandoli e danneggiandoli anche in corsa tanto che Robic – campione francese –, e chiamato “testa di vetro” per avere avuto interventi sul cranio a seguito di cadute, in una occasione impugnò la pompa della bicicletta colpendo gli spettatori.
L’avventura finì con il ritiro, per protesta, delle squadre italiane che rientrarono in patria con la maglia gialla di Magni sul cofano della sua ammiraglia.
La lezione di Robic, dunque, non servì né allora né oggi. Che i francesi temano di vedere le plurime vittorie di Froome determinate dalla situazione che a suo tempo toccò al grande pluri-vincitore statunitense.
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