(O) Non mi ha soddisfatto la tua conclusione a proposito di Africa e di Europa, della scorsa apologia. Troppo facile condannare il populismo e invocare la cooperazione internazionale, roba vecchia, deja vu, già vista e già fallita.
(S) Potresti anche prendertela con il populismo che attacca i vitalizi, o no? O con il calciomercato e le sue spese folli, un solo calciatore basterebbe…
(C) Basterebbe a troppe cose. La distanza tra merito e ricompensa, tra principi e popolo, tra vita facile vita impossibili si è enormemente allungata. Bisogna riavvicinare i lembi delle ferite perché il tessuto, anche quello sociale possa rimarginarsi. Anche il tessuto morale ha bisogno di rimarginazione; i coniugi Gard ci stanno contribuendo, con la loro rinuncia a proseguire la battaglia legale per la vita di Charlie, evitando toni esasperati, da tifoseria.
Voglio invece tornare sull’Africa. Su come l’Africa può aiutare l’Europa e il mondo. Ormai è chiaro a tutti che il diluvio è imminente e che non ci sono rimedi a portata di mano. Possono ben rallegrarsi i Francesi, e noi con loro, se l’azione diplomatica metterà un po’ di pace in Libia, dopo aver portato la guerra e il terrore, ma nessuno si deve illudere che la vicenda possa finire come era incominciata, lemme lemme. Il profugo economico è sorretto da una determinazione persino più forte del profugo di guerra: la maggior parte di questi ultimi vorrebbe poter ritornare, nonostante tutto. Invece chi lascia l’Africa sub sahariana o il Bangladesh o altre più limitate regione dell’Asia e dell’America latina sa di tagliarsi i ponti dietro le spalle. Conserverà alcuni usi e costumi, magari le credenze religiose, ma vuole proprio cambiare stile di vita.
(O) Non ho capito! Hai detto “come l’Africa può aiutare l’Europa e il mondo” o il contrario?
(C) Queste pagine vorrebbero essere il regno del paradosso, è bene che ce ne ricordiamo, qualche volta. Però lo stupore generato dal paradosso deve essere passeggero. Perciò passo subito al primo argomento: la diversità. Spesso una tragica diversità, alimentata dalla memoria e dagli effetti del colonialismo, a rischio d’infiltrazione del jihadismo (uso questa parola in modo giornalistico) anche a sud del Sahara, ma irriducibile a modelli importati, penso anche al prossimo, quello cinese. È una diversità soprattutto interiore, radicata nel senso della maternità e intessuta di religiosità naturale che nella gente comune si sostanzia in capacità di rinuncia e di sacrificio o un una più che normale sobrietà. Anni fa, un alto funzionario delle Nazioni Unite mi confidò il metodo infallibile per scoprire la correttezza, sotto tutti i punti vista, di un leader africano, politico o civile: il colore della pelle del suo cuoco. Un cuoco africano è garanzia di fedeltà alla missione, un cuoco europeo o cinese spesso è segnale dell’abbandono di una identità condivisa col suo popolo.
(S) Questa è bella! A quando Black Masterchef?
(C) Ssst. Però questo mi suggerisce di svelare un possibile tesoro nascosto dell’Africa: lo spettacolo. In Africa ognuno è protagonista della festa, dà il meglio di sé, che sia una festa di famiglia, una danza collettiva o una messa. La spettacolarizzazione focalizzata su pochi soggetti è figlia della rappresentazione del potere, è eurasiatica.
(O) Capisco ancora meno dove vuoi arrivare.
(C) Ecco: L’Africa merita un proprio sviluppo, un aiuto non solo disinteressato, ma veramente umano, non per tenerli a casa loro, non per farli diventare massa di operai o di agricoltori al servizio della ‘Nuova Cina’, ma per aiutarli in una crescita armonica, che sia anche libertà dal bisogno e da usanze regressive. Ma non voglio teorizzare, voglio portarvi un esempio concreto, senza nemmeno fargli pubblicità, senza fare nomi di stati, di città o di persone. Per brevità userò una sigla: WK.
“Con un’amica, K – anche lei in Africa nell’ambito della cooperazione internazionale – abbiamo deciso di fondare questa ONG che si chiama WK (“coraggio” nella lingua locale) per aiutare le persone handicappate che fanno i mendicanti nella capitale. Li prendiamo dalla strada, li formiamo e diamo loro una casa, un lavoro e uno stipendio. In un paese povero come questo, e occorre dirlo, ignorante, quando un bambino nasce con un handicap fisico o lo diventa a seguito di un incidente, è la famiglia stessa che, magari dal villaggio dove sono, lo spedisce sui marciapiedi della capitale a fare il mendicante, perché così può mantenere se stesso e tutta la famiglia.
Ovviamente il risultato è che questa gente non ha un futuro, quasi il 90% delle persone fisicamente handicappate sono disoccupati, secondo il Governo. Non c’è alcuna protezione sociale, quindi alla prima malattia seria muoiono. E quelli che non si ammalano sono comunque analfabeti e senza un avvenire. In più per completare la serie delle belle notizie, nessuno affitta una casa a un handicappato, perché’ sono sporchi e considerati esseri inferiori. Quindi anche quelli che guadagnano un po’ di soldi, sono condannati a restare sulla strada.
Ora, ci vuole coraggio a finire di fare il mendicante perché con l’elemosina si guadagna di più, almeno all’inizio. Ma ci siamo accorti che ci sono alcuni tra di loro che veramente vorrebbero trovare un lavoro e quindi hanno grandi motivazioni per guadagnarsi la dignità’ con il sudore della fronte. Così ho pensato che persone talmente motivate potrebbero avere successo nel mondo del lavoro, qualora avessero una chance.
Il 1 febbraio 2016 nasce quindi WK, ci installiamo in uno spazio messoci a disposizione da un benefattore e assumiamo un calzolaio che forma i primi tre handicappati. Allo stesso atelier vendiamo poi i prodotti che questi fabbricano.
L’obiettivo è di rendere WK una vera impresa sociale, capace di essere profittevole, perché riteniamo che la competitività sia la più grande garanzia di sostenibilità di un progetto sociale.
Nel tempo abbiamo cercato di espandere l’iniziativa, abbiamo vinto il Premio Orange per l’imprenditoria sociale nel 2016 e grazie ai soldi raccolti anche tra gli amici europei abbiamo aperto una boutique nel centro della capitale, dove vendiamo i prodotti realizzati dai nostri calzolai. Ora a WK lavorano 14 persone: 7 persone handicappate, 1 insegnante per scolarizzarli, 2 calzolai finiti, 1 responsabile. sanità’, 2 agenti commerciali e 1 amministratore.
Abbiamo raggiunto un buon livello di qualità dei sandali in pelle che produciamo (foto a richiesta) ma con l’estensione del progetto i costi sono aumentati più dei ricavi, perché il business delle scarpe non dà margini sufficienti per coprire i costi “sociali” che sosteniamo (le case, il cibo, e le cure sanitarie), quindi è sempre più difficile per me e K finanziare le perdite.
Per questo motivo abbiamo deciso di aprire una seconda filiera di produzione, quella delle borse, perché ci sembra che ci sia più margine e quindi potremmo avere più chances di coprire i costi sociali con la sola produzione di WK. Abbiamo così assunto un secondo maestro che sta insegnando ai nostri lavoratori come realizzare delle borse in pelle.
Ora, uno dei problemi che abbiamo e che rendono WK non competitiva è la bassa produttività dei nostri lavoratori, chiaramente dovuta al loro handicap e al fatto che per 20 anni questi non abbiano fatto altro che tendere la mano per chiedere l’elemosina. Per questo stiamo valutando l’idea di acquistare delle macchine, non troppo complesse, ma che possano automatizzare la produzione e abbattere i costi operativi. Ma noi non siamo degli esperti di settore e i due maestri locali sono degli artigiani che lavorano solo con le proprie mani, quindi non sanno orientarci. Ragione per cui ho scritto a Lei nel caso conoscesse qualcuno con esperienza nel settore”.
(C)Vedete ora la difficoltà di una strada, resa ancora più ardua da qualche piccolo uso ‘civile’, per esempio quello di mettere dazi all’importazione di semplici macchine utensili, da noi disusate, ma che sarebbero molto utili, proprio per la loro semplicità in quel contesto microartigianale. Poi, ovviamente, manca l’esperienza. Ma io insisto nel mio paradosso: iniziative come questa aiuterebbero molto di più l’Europa di qualsiasi marchingegno escogitato sia dai populisti, sia dai professionisti (lo dico senza ironia) dell’accoglienza.
(O) Una volta si chiamavano micro realizzazioni, erano la specialità di molte ONG e ce ne saranno sicuramente ancora. Vorrei tanto che tu abbia ragione, che un cambiamento di mentalità, chiamiamolo pure conversione, sia possibile qui e là; ma sarà sufficiente?
(S) Ci vuole coraggio, come il nome della ONG nella lingua locale, con la possibilità di rischiare qualcosa anche in proprio. Gli stessi disabili, mi pare, cominciano col guadagnare meno che con l’accattonaggio, ma guadagnano in dignità, che può anche essere un collante sociale molto valido, una cosa assolutamente necessaria in un mondo dove i legami più solidi sono ancora quelli tribali e dove i governi (come dappertutto) usano strategie di brevissimo termine. I risultati non duraturi lasciano delusione, poi amarezza, poi rancore ed è meglio non proseguire.
(C) Badate bene che nemmeno mille di queste realizzazioni saranno da sole efficaci contro la grande migrazione, ma renderebbero sicuramente più efficienti e meno spreconi i grandi interventi di cooperazione internazionale, che restano assolutamente necessari, ma che devono poter trovare un tessuto sociale di gente comune più formata e motivata al lavoro e alla dignità umana sotto tutti gli aspetti, per poter dare anche i loro frutti.
(O) Onirio Desti (S) Sebastiano Conformi (C) Costante
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