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Cultura

NOBILI D’ALLORA

PAOLA VIOTTO - 28/07/2017

 

Orsi nelle Alpi? Questi grandi mammiferi, oggi al centro di isolati fatti di cronaca, occasione per dibattiti accesi tra agricoltori e animalisti, erano un tempo anche da noi una presenza diffusa. Nel Quattrocento i Duchi di Milano venivano a Varese proprio per cacciare l’orso, e il cinghiale, oltre che altre più facili selvaggine.

Ad ospitare loro e il loro ricco seguito c’erano le dimore e i casini di caccia che i nobili locali, i cui interessi economici e politici erano ormai a Milano, si facevano costruire nelle valli prealpine per trascorrervi i momenti di svago. Erano edifici come la Villa Mozzoni di Bisuschio, inizialmente di dimensioni ridotte, poi ingranditi e arricchiti con fontane e giardini, fino a diventare vere e proprie ville di delizia. I muri interni e anche quelli esterni, completamente affrescati, mostravano ritratti, temi mitologici, figure allegoriche e ovviamente, tante e tante scene di caccia.

Di questo patrimonio rinascimentale resta relativamente poco, ma gli esempi rimasti aprono uno spiraglio sulla vita quotidiana dei nobili di allora, e talora anche su quella del popolo. Così nella cosiddetta Sala degli svaghi, oggi compresa all’interno di quello che chiamiamo Castello di Masnago, possiamo vedere un villico che conduce al guinzaglio due feroci cani da caccia, mentre porta in spalla una fascina di rami per costruire trappole.

In realtà i signori Castiglioni, a cui apparteneva allora questa nobile dimora, erano soprattutto interessati a svaghi piuttosto tranquilli, dal gioco delle carte, alla musica sul prato, fino alle gite in barca sul lago. Meno ardimentosi del loro duca, sdegnavano la pericolosa caccia all’orso per dedicarsi a quella con il falcone. Arte aristocratica, difficile e raffinata, a cui potevano partecipare anche le dame e che si poteva praticare anche sfoggiando gli abiti più eleganti. Così a Masnago una giovane coppia procede affiancata su cavalli dalle ricche bardature e dalle criniere intrecciate. Lui regge con artefatta noncuranza il falcone sulla mano guantata, mentre lei, con l’aria un po’ preoccupata, si fa seguire da una damigella di cui s’intravvede soltanto il profilo. Entrambi hanno copricapi all’ultima moda, assai bizzarri per l’occhio moderno, di certo inadatti a sostenere una furiosa cavalcata, tantomeno una mischia con l’orso.

La caccia all’orso, soprattutto quando si svolgeva essenzialmente con lance e picche, richiedeva quantomeno dei cani ben addestrati, come si può vedere negli affreschi del casino di caccia dei Borromeo ad Oreno, vicino a Vimercate in Brianza. Sempre negli affreschi di Oreno però scopriamo un piccolo segreto: gli orsi per la caccia potevano anche essere allevati, e poi liberati per la gioia dei cacciatori, un po’ come si fa oggi con il ripopolamento della selvaggina.

Andavano invece sul sicuro con lepri e uccelli i Castiglioni di Castiglione Olona, parenti del Cardinal Branda. Nella loro casa, oggi nota come Corte del Doro e sede del Museo della plastica, lepri bianche, inseguite da agili levrieri, corrono sulle pareti del grande salone al primo piano, al di sopra di un fregio che imita un ricco arazzo ricamato. Nella sala vicina uccelli di vario genere, osservati sicuramente dal vero come l’airone dal lungo becco, volano tra le chiome di una foresta molto stilizzata, cercando forse di sottrarsi al falcone.

La caccia con il falcone si faceva ancora nel Cinquecento, come provano gli affreschi di Villa Perabò a Varese, attualmente all’interno del complesso del De Filippi. La rappresentazione si è fatta però più realistica, e non solo nel disegno e nell’uso della prospettiva.

Durante la caccia al cervo nelle mani dei cacciatori accanto alle spade e alle lance compaiono balestre e armi da fuoco. Su uno sfondo di laghi e colline le prede sono braccate senza pietà da uomini e cani, spinte nell’acqua, circondate e finite da nobili a cavallo e villani appiedati. La caccia come massacro feroce, all’interno di una sala nei cui affreschi sono stati letti significati allusivi alla precarietà e alla violenza dei tempi, diventa metafora di ben altre tragedie

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