Un paio di lunedì fa. Prendo il treno di metà pomeriggio che da Milano mi porta a casa. Il convoglio corre a perdifiato sotto un sole d’estate che avvampa e rende il corpo madido di sudore. Lo scompartimento è felicemente semivuoto e l’aria condizionata mi permette di risollevarmi, di sciogliere la mente, di riprendere la lettura del mio libro dal finestrino.
Mentre il treno esige strada, dal finestrino osservo le stoppie dei campi spettinati e bruciati, le rive dove a stento fioriscono ancora rari fiori gialli. Davanti a me siedono due giovani universitari. Il treno irrompe dapprima in stazioni importanti, successivamente si ferma per lo sgomento di un attimo.
Dopo due o tre fermate, odo voci scomposte, alterchi accesi, si alzano improperi, mulinano parole grosse. Mi giro e il giovane davanti a me esclama: “Il solito cretino (in realtà, il sostantivo era più grezzo!) che sale senza biglietto: e intanto perdiamo tempo!”. Dopo poco, il diverbio si conclude con un armistizio e il treno riprende il suo fiato.
Dopo due fermate, un nuovo scontro verbale nasce tra il controllore e una giovane signora di colore, ben composta nel suo abbigliamento e dai tratti gentili, che è salita con una carrozzina dove dorme un pargoletto. Anche lei non ha il biglietto. Il controllore le fa capire che deve sanzionarla o deve scendere.
La donna, imperterrita, lo rimbecca dicendogli che solo i neri vengono puniti, mentre i bianchi viaggiano senza biglietto. Non l’avesse mai detto! Il controllore va su tutte le furie. Con il suo inglese stentato è chiaramente adirato. Il volto è paonazzo, sprizza sudore: in suo soccorso arrivano un altro controllore e il capotreno.
Nel frattempo, il convoglio resta fermo. Le porte rimangono aperte. La donna si rivolge a un uomo (il marito? Il compagno? Un amico?) che si precipita alla biglietteria. Ritorna con il biglietto non convalidato. Il controllore lo rimanda indietro. Il treno nel frattempo ha già accumulato dieci minuti di ritardo.
Il convoglio riprende la sua corsa. Supera le chiome d’acqua di un fiumiciattolo. Passano persone che cambiano scompartimento, altre si apprestano a scendere fra poco.
A una stazioncina salgono due baldi ragazzotti nostrani, muscolosi, tutto un tatuaggio, capelli impomatati a cresta di gallo. Ad attenderli c’è il solito controllore: i due cercano invano il biglietto nelle tasche, fingono di averlo perso, sono disposti a pagarlo, ma presentano una banconota da 50 euro e il controllore non ha il resto. Allora uno dei due, inveendo, imprecando, sghignazzando va ad acquistarlo, mentre il secondo si mette in mezzo alle due porte di chiusura per impedire al treno, già in ritardo, di ripartire. Rientra, ma le porte non si chiudono perché guastate dalla presenza dell’intruso.
Volano ancora parolacce. Arriva un collega del controllore, che viene invitato da me a chiamare le forze dell’ordine, ma mi confida sottovoce che non può farlo, altrimenti il convoglio accumulerebbe maggiore ritardo. Qualche passeggero comincia a dare segni di impazienza.
Uno dei due bulli offende gravemente un controllore. L’altro bravaccio, ridendo scompostamente, ripete l’ingiuria. Il viso del controllore offeso diviene ancora più rosso, gli occhi paiono fulminanti, i muscoli della faccia tirati, il parlare è urlato, le braccia agitate. I due continuano i loro improperi.
Intervengo presso i due teppisti per convincerli ad acquietarsi. Gli altri passeggeri lanciano improperi. Il treno riprende la corsa e il trambusto cessa. I controlli sono necessari e lo so bene, ma sono anche il segnale di una illegalità diffusa, di diffidenza, di inimicizia.
Arriviamo a Malnate. Sale un giovane nero, capelli a treccine, viso visibilmente turbato: non ha il biglietto. Stessa scena. Dalle poche parole che il ragazzo pronuncia capisco che è francofono (Moi non capisco, me…). Un po’ per compassione, ma soprattutto per non perdere altro tempo, mi avvicino a lui e gli chiedo dove deve andare, gli do poche monete per comperare il biglietto, scende, rientra e il treno si mette in moto.
Contemporaneamente, una gragnuola di insulti lo assale: “Vattene a casa tua” – “Ci hanno rotto i c….” – “Ormai comandano loro!…”. Una ragazza, coraggiosa e impavida, ha la baldanza di dire quello che mi aspettavo: “Ha fatto quello che hanno fatto i due italiani!” e mette tutti a tacere.
Mi avvicino al giovane. Mi dice di venire dal Mali e di essere ospite di una casa di accoglienza. Mi racconta di avere studiato “le collége” e spera di raggiungere la Francia, dove vive suo fratello che fa il meccanico. Per raggiungere Varese ha attraversato il sud del Mali, è entrato in Libia, ha compiuto giornate intere di cammino con le bolle sotto i piedi. Ha conosciuto la fame e la sete, il pericolo di morte, un campo di raccolta, ha messo la sua vita a repentaglio di naufragio e quando è stato accolto da un mezzo di soccorso dei cavalieri di Malta ha ringraziato il suo Dio.
Scende a Varese e mi dice: ”Merci!”. Che cosa posso dire a lui se lo fisso negli occhi se non “Welcome!”. Non c’è parola più bella in questi tempi. Sei il benvenuto! Spero che tu ti trova bene in un lembo di terra europea.
Welcome! È l’impegno di chi vuole che si trovi a suo agio in questo luogo di cui anch’io sono ospite. Welcome! Sei libero di restare, sei libero di partire. Le frontiere non dovrebbero essere trincee, ma create per essere oltrepassate. C’è una forte tensione nel nostro paese: i condomini, con le loro porte blindate, i nativi di un paese che ti guardano di sottocchio, i ragazzi che incontri e che non ti salutano incarnano una sconfitta dell’umanità che non si stringe più la mano sospettando che in quella dell’altro si nasconda un’arma
Comprendo che la migrazione deve essere governata: ciò spetta all’Europa, questo è di competenza dello stato di arrivo, quest’altro delle Ong, questo tocca al volontariato. Da come trattiamo l’altro, comprendiamo che l’altro è in noi perché la società è un insieme di persone che si attraggono o fanno la guerra. Lo straniero è dentro di me quando divento violento, iroso, aggressivo, mentre il migrante è il vero uomo planetario, colui che prefigura l’universalismo.
Certo, desidero anch’io che l’accoglienza sia un diritto, ma anche un dovere: rispettare la legalità. E chi non la rispetta deve essere sanzionato. E ciò vale per tutti, non solo per i migranti, anche per me, per i miei, per tutti: quanti delinquenti, camorristi, mafiosi sono riusciti in questi anni a entrare nelle aule parlamentari? Quanti grandi affari illeciti sono organizzati da colossi dell’industria, dell’imprenditoria, delle banche?
Non basta aggiungere insulti a insulti. Perché aggiungere sofferenza a sofferenza? Spetta ad ogni cittadino non teorizzare la violenza della storia.
Prima che io scenda alla stazione di arrivo, il capotreno viene a ringraziarmi per aver “gettato acqua sul fuoco” e per dirmi che uno di loro è stato accoltellato ed è ancora all’ospedale in prognosi riservata. Lo comprendo.
Oggi, chiunque sia costretto a far rispettare le regole è schernito, se non diffamato. Molti sono portati più a collaborare con i trasgressori della legge, se non con i delinquenti, che non con gli uomini che devono collaborare con lo Stato per far rispettare la legge. Non sono solo le forze dell’ordine, ma sono gli insegnanti che vengono beffeggiati da certi genitori desiderosi solo di difendere i loro pargoli, sono i medici che vengono incriminati perché non hanno seguito le regole lette su internet, sono perfino i giudici che sono ingiuriati da chi non sa nemmeno quanti gradi di giudizio deve affrontare un imputato…
Incontrare l’altro, dialogare con lui, uscire dalla propria casa per incontrarci nelle strade e nella piazza non solo per divertirci, ma per ritrovare la voglia di stare assieme, di parlare e di ascoltare, di guardarci negli occhi e nel viso, forse di amarci: è questa la sfida che ci attende.
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