I versi furono scritti nel 1962 da quel poeta complesso, difficile, anzi difficilissimo che fu Andrea Zanzotto, docente di scuola media, coltissimo, curioso, autenticamente veneto ma con un respiro europeo. Si rivolgeva alla luna e lui, che seppe introdurre nel suo lessico nuovo, misteriosamente provocatorio per una mescolanza di parole arcaiche e di latinismi, anche vitali espressioni provenienti dalla cultura scientifica, la invocava come pallida puella. Chissà come l’avrebbe guardata e chiamata oggi, ricordando il 20 luglio 1969?
Quella data fu importante : la sorpresa reverenziale per la tecnologia (pochi mesi dopo iniziarono anche esperimenti su quello che sarebbe diventato internet) fu quasi un omicidio per la più autentica capacità di stupore. Nella vertiginosa ubriacatura tecnologica avremmo davvero bisogno di violente sorprese poetiche. Ma di queste abbiamo paura. Magari è una paura fatta da pigrizia intellettuale; comunque è spesso rinuncia ad affrontare i temi nella loro inquietante profondità.
Avremmo davvero bisogno – e usiamo le parole dello stesso Zanzotto – anche di tensioni di natura psicologica che stanno al di sotto della ricerca. Avremmo bisogno che la nostra luna facesse splendere a tutti la speranza, o se preferiamo la beltà di cui parlava il poeta di Pieve di Solingo per far sì che oggi si rendessero umane non le pietre -come lui cantava- ma i robot. O forse è davvero irrecuperabile quel modo di creare turbamenti nelle tradizionali visioni, come fece il nostro poeta già a partire dalla sua raccolta del 1957 (e si sa non tutte le ricorrenze devono essere oggetto di riflessione rituale), intitolata Vocativo. Certamente avremmo bisogno di un dialogo nuovo tra tradizione e innovazione, che al di là degli slogan, non devono essere gli Scilla e Cariddi della nostra vita ma bussola davvero orientante in quel labirinto, spesso magma irrazionale, che è diventata la nostra società. E anche in questo necessario dialogo Zanzotto può esserci maestro. Fu consapevole – specialmente nelle Egloghe – della bellezza necessaria del superfluo azzurro del cielo e fu capace di creare una identificazione della bellezza del paesaggio durante la vendemmia (il paesaggio veneto che tanto diede alla pittura veneziana) con la poesia. Magari non è facile interrogare la luna, che è pur sempre lontana, ma possiamo interrogare e guardare con occhi diversi quello che ci è vicino, come il paesaggio.
Si devono leggere (ma è sempre meglio essere poco categorici, quindi si dovrebbero leggere) le pagine di Zanzotto dedicate ai paesaggi del vino, in cui la vite si associa alla vita, per avere un giusto sguardo – e ancora sono le parole del nostro – di terra.
Ah paesaggio mio fervido, accorato/amoroso paesaggio. Vedo felci / avanzare e sciuparsi nelle nere/correnti, e tra vaganti / inferni, gorghi atomici, il pudore d’ortica / e il vino e il dolce lavoro di Dolle / deprimere il suo lume, / e la vite inclinarsi disossata/sventurata sulle case, e l’uva / chiudere il vento e il giorno”, così scrive in versi celebri di Vocativo.
Nel nostro viaggio tutto interiore dalla Luna alla terra con un compagno come Zanzotto giungiamo (e non per caso) a capire come ci possa essere davvero un paesaggio fervido: fervido di idee, di sorprese e di rinnovata speranza. E non sarà un caso che proprio in quelle terre cantate dal vendemmiatore Zanzotto un potente connubio tra tradizione e innovazione ha fatto sì che un vino tra i più amati, qual è il Prosecco, sia diventato un sorprendente simbolo italiano. Il 20 luglio brindiamo alla Luna e non solo. E magari riusciamo anche a ricordarci le parole di Simone Weil. L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. Ne abbiamo bisogno.
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