Come tanta fermezza possa entrare in una testa così piccola è un mistero che andrebbe indagato.
La perseverante determinazione con la quale mio nipote persegue i suoi scopi ha un fattore di elasticità pari a quello di una putrella a doppio T in acciaio al cromo molibdeno.
Il genere, il progressivo guastarsi della situazione non lascia scampo: dopo 180 secondi di strepiti, il desiderio impellente degli astanti di menare le mani si materializza in un addensamento dell’aria che causa un anomalo aumento della pressione atmosferica.
Una volta ne ho discusso con mia figlia. Lei era stata ad un incontro su come arginare le intemperanze infantili. Gli esperti suggerivano il convincimento verbale piuttosto che il contatto fisico. Non ricordo bene l’argomentazione con la quale lei sosteneva ciò. La sostanza era che gli scapaccioni non servono perché il bambino non capisce – che cosa poi non capisca, l’ho dimenticato – e che il loro effetto è solo di far sentire meglio l’adulto. Ho obiettato che questo non mi sembrasse una conseguenza trascurabile, ma non ho trovato il suo consenso, forse memore di quella volta che il suo fondoschiena è stato ripassato con un giornale opportunamente arrotolato. Tuttavia, ultimamente ho notato con una certa intima soddisfazione che, nei momenti di particolare furore dell’incapricciamento nipotesco, a volte lei bada alla sua soddisfazione e, smarrita la pazienza, passa alle vie di fatto.
La soluzione delle controversie per via pacifica, invece, richiede che il genitore sfoderi almeno due delle seguenti qualità, in una combinazione a scelta: l’abilità nella negoziazione di un mercante levantino; l’arguzia di un sofista; la pazienza di Giobbe; l’olismo pedagogico di Rudolf Steiner; la serenità d’animo di un maestro zen; la risolutezza volitiva di Alessandro Magno; la visione cosmologica di un monaco buddhista; la saggezza educativa di Maria Montessori; un improvviso forte abbassamento dell’udito.
Quando, nonostante tutto, accade che gli eventi precipitino, allora il dramma vira in una tragedia dove il nipote impersona una via di mezzo tra la rappresentazione wagneriana dell’ira di Wotan e lo strazio di Achille sul corpo di Patroclo.
In questi non rari casi, la presenza di un nonno di frontiera aiuta a stemperare la tensione. Non è una cosa semplice e per farlo occorre una certa consapevolezza del proprio ruolo.
La presenza del nonno di frontiera è, per definizione, intermittente: c’è in modo continuativo per un periodo di tempo abbastanza lungo, poi sparisce e per mesi è solo un volto e una voce sullo schermo dell’iPhone.
Quando c’è, non è una entità a sé stante, definita nel suo essere al mondo da certe caratteristiche: la casa del nonno, l’auto del nonno, la sua poltrona, il suo lavoro, le sue passioni, i suoi impegni e i suoi tempi, la sua vita insomma e, soprattutto, il suo modo di rapportarsi con il bambino, ma è una appendice della famiglia del nipote. Vive con la famiglia; c’è dalla mattina quando si sveglia fino alla sera quando va a letto; fa più meno tutto quello che fa la famiglia; si allinea, volente o nolente, alle direttive della mamma che ovviamente mantiene pienamente il suo ruolo. Di conseguenza, diventa difficile per lui esprimere il proprio essere di nonno: manca lo spazio.
Arriva volando da un luogo indefinito, fa quello che deve essere fatto, e alla fine rivola via e ritorna da dove è venuto. Esattamente come Mary Poppins.
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