La Democrazia Cristiana, il più forte raggruppamento, e il Partito Socialista, il più antico soggetto politico, non ci sono più; i partiti minori di tradizione risorgimentale sono svaniti nel nulla; il Movimento Sociale si è frammentato in più fazioni e il Partito Comunista, a furia di metamorfosi, è diventato un modello irriconoscibile.
I sette o otto partiti di un tempo si sono moltiplicati in maniera geometrica e il bipolarismo conta decine di “partitoidi” che faticano a stare insieme nelle coalizioni.
Dopo il ciclone giudiziario di “Mani pulite” che ha travolto la “prima Repubblica”, di uguale è rimasta solo la corruzione pubblica: più diffusa, più profonda, più rigogliosa di prima. Quella che era un tumore – ha detto Di Pietro – è diventata una metastasi.
È il capovolgimento del teorema che fossero i partiti a inquinare la società civile, sostanzialmente sana, che è stato smentito dalla evidenza dei fatti.
La corruzione pubblica non è figlia della politica ma è una eredità antica del “familismo amorale” che è uno dei tratti caratteristici del nostro Paese che, per complesse ragioni storiche, non è riuscito ad acquisire il senso della responsabilità per il bene comune collettivo. “I politici – ha osservato Gherardo Colombo, che faceva parte del “pool di Milano” – sono eletti dai cittadini, non vengono da Marte: è una questione di cultura, di un modo di pensare che non riguarda soltanto la corruzione ma le regole”.
Invece di fare un serio esame di coscienza per individuare le proprie responsabilità, gli italiani hanno preferito voltarsi dall’altra parte e consentire la nascita di un nuovo sistema che ha riportato a galla i cascami di una cultura fascistoide di destra con accenti xenofobi e razzisti, la personalizzazione della politica, il presenzialismo sollecitato dalla televisione al posto della partecipazione.
I comportamenti individuali sono riassunti e dedotti da quelli dei “leader” e la “democrazia dei partiti” è stata sostituita dalla “democrazia del pubblico”.
Gli italiani non sono stati in grado di distinguere tra la trama di malaffare che inquina gli strati della nostra società dove i politici, non meno degli altri, “rubavano” per sé, ma per salvarsi la faccia dicevano di farlo per il partito. A Varese, quando si è potuto guardare nei conti della DC, si è scoperto che gli inquisiti avevano lasciato un debito di seicento milioni di lire che fu saldato, al cinquanta per cento, con l’alienazione delle proprietà legittimamente possedute dal partito, composto per la stragrande maggioranza da gente per bene.
Il capitolo del finanziamento nazionale pubblico dei partiti è cosa diversa: dopo la caduta del fascismo (anche allora si preferì dimenticare passate connivenze) la democrazia fu un “regalo” degli Alleati che, per molti anni, continuarono a pagarne i conti. Quando i finanziamenti “occidentali”, ma non anche quelli provenienti dal PCUS, cessarono, i nostri concittadini non ebbero coscienza che la democrazia ha un costo (peraltro non altissimo) e che senza il finanziamento pubblico la democrazia si trasforma in “plutocrazia” dove solo i ricchi possono fare la politica o condizionarla.
Negli anni Settanta il costo fu in parte sostenuto da un “concerto” di aziende che beneficiavano degli appalti per i lavori pubblici: i politici sostenevano che si trattava di una convergenza di interessi perché la stabilità del sistema democratico conveniva a tutti; gli imprenditori ribatterono di essere stati costretti a pagare.
Si trattava di ricatto o di connivenza? Sicuramente le regole di trasparenza non furono rispettate, però nessuna azienda ha mai dimostrato di essere stata penalizzata per non aver pagato. Le somme così raccolte venivano equamente distribuite tra i vari partiti, incluso il PCI ma escluso il MSI; non fu una cosa edificante ed è giusto che sia stata sanzionata; ma alla politica fu addebitato spesso indebitamente anche il malaffare della società.
Mentre giornali e televisioni contribuivano a ingigantire lo scandalo, dietro le quinte (ormai è assodato) si preparavano alacremente e con larghi mezzi i “soggetti” del futuro che costituirono il paravento dietro il quale si compì il “riciclaggio” di vecchi poteri e personaggi che della politica avevano largamente beneficiato non sempre in modo limpido.
Non nacque il “nuovo”, ma ancora una volta nella nostra storia nazionale comparve il fenomeno del “trasformismo” che continua ad inquinare la gestione pubblica. Nel 1994 avvenne una impressionante mutazione antropologica: i nostri concittadini dimenticarono completamente il passato come i loro genitori, nel 1943, avevano voltato pagina con il fascismo senza fare autocritica per le precedenti connivenze. “Italia pentita sempre ma cangiata mai” come ebbe a dire Alessandro Manzoni.
Né è valsa la pena?
I partiti, e in particolare la Democrazia Cristiana, avevano molti torti ma anche molti meriti. Negli ultimi anni avevano dissipato i valori originali, il senso della loro missione, la visione prospettica del futuro, ma la politica era pur sempre rapportata ad un contenuto etico, alla distinzione tra pubblico e privato, ad un patrimonio valoriale che, nonostante la decadenza, connotava ancora la politica come forza di cambiamento.
Potevano essere riformati? Forse, ma tutto fu travolto da un irrazionale tumulto di sentimenti e di risentimenti; “insieme all’acqua sporca fu gettato anche il bambino”, con il risultato che è scomparso il finalismo e ci accontentiamo di gestire l’esistente.
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