Quando si va a ricercare qualcosa sulla Preistoria del Varesotto si legge, e si scopre, che le prime tracce dell’uomo in queste terre baciate dal Signore risalgono al Paleolitico superiore, vale a dire a 15-10.000 anni prima di Cristo, cioè a diciassettemila – più o meno – anni da adesso o a dodicimila nella migliore delle ipotesi.
Il materiale che fa presupporre tali antichissimi insediamenti è stato rinvenuto ad Angera nell’ormai famoso – per chi si appassiona a queste discipline – Antro mitriaco o Tana del lupo che si trova alla base del sopralzo su cui si regge la Rocca. E ancora qui (ma pure in Valganna e nella zona di Torba) sarebbero stati trovati resti di insediamenti del Mesolitico – da 10.000 a 5.000 anni avanti Cristo –: microlamelle e lamelle, scrivono gli studiosi.
Per arrivare, infine (ma non è che un inizio…), agli insediamenti palafitticoli dell’Isolino Virginia, sul lago di Varese e in altri luoghi vicini, del Neolitico – la Nuova età della pietra –, concentrati nel periodo (e nelle decine e decine di secoli) che va da 5.000 a 2.800 anni prima di Cristo. È nel Neolitico, si afferma, pure suddiviso in fasce più o meno generiche, Neolitico antico, medio e superiore, che avvennero alcune prime e importanti scoperte e conoscenze dell’umanità: l’agricoltura, l’allevamento degli animali, la tessitura, l’uso e la confezione di oggetti in ceramica, magari anche decorati.
Rimaniamo pure nel Varesotto, anche se è noto che l’esistenza del cosiddetto homo sapiens risale ad almeno 300.000 anni fa e che la sua culla, cioè il punto di partenza, fu il continente africano. Un dato che dovrebbe far drizzare un po’ le antenne a un dieci, quindici per cento di elettori lombardi.
La prima cosa che si nota in questi studi e in queste indagini è l’ “approssimazione” delle date. Se rapportate alla condizione di oggi, anche solo mille anni di differenza (uno sputo nella preistoria e nella… storia) ci porterebbero, andando all’indietro dai nostri giorni, all’epoca di Federico Barbarossa e ad Alberto da Giussano, se mai è esistito. E qui si parla (un po’ a spanne?) di due, di tre, di quattro e anche di cinquemila anni per identificare un po’ alla bell’e meglio certi periodi.
Insomma, diamo pure per scontato che in quelle lontane ere l’uomo – e non solo l’uomo lombardo, naturalmente – non possedesse lo smart-phone, la televisione e che la famiglia del Paleolitico o del Neolitico non facesse una settimana l’anno di vacanza a Rimini o a Riccione. Ma è possibile pensare che in cinquemila anni, forse di più, l’uomo riuscisse soltanto a passare dalla lamella e dalla microlamella alla punta, più o meno aguzza, della sua lancia? Dalla cattura con le mani di un pesce nel lago alla coltivazione dell’orzo nel “giardino” di casa? C’è qualcosa che non quadra e che ci lascia un po’ perplessi.
Siamo più portati a pensare – ma è solo un ragionamento logico – che l’uomo delle nostre palafitte, per restare sempre in patria, il “varesino” di cinquemila anni fa, quello del Neolitico dunque, se non possedeva il telefonino cellulare e se non vedeva le partite in tv, se non aveva il bagno in casa e la luce elettrica era però in possesso di “nozioni complesse” e di varie conoscenze che noi, forse, abbiamo perduto. Parlava una lingua (magari universale?), probabilmente scriveva con una grafia di segni (si veda la civiltà degli Egizi), conosceva le stelle con le quale orientarsi, sapeva di quali piante potersi cibare per sopravvivere e curarsi senza farsi venire il mal di pancia, anzi, viaggiava e comunicava. Se è vero com’è vero che nei siti archeologici del lago di Varese sono stati trovati frammenti di ossidiana – una pietra lavica dura e particolare, e utile per fabbricare resistentissime punte di lancia –, una ossidiana inesistente in queste zone e proveniente dal monte Arci, in Sardegna, significa che l’uomo primitivo – o chi per lui – ogni tanto andava a farsi un giro, a conoscere e a incontrare gente nuova, e – chi lo sa – a fare shopping.
Da questo punto di vista, il ritrovamento ventisei anni fa sul massiccio del Similaun, in Alto Adige, alta Val Venosta, di un uomo mummificato del Neolitico – quindi coevo dei nostri palafitticoli abitanti del lago – vissuto, tutto compreso ben più di cinquemila anni da oggi, è esemplare.
È noto che la mummia è stata simpaticamente ribattezzata Ötzi dal nome, grosso modo, della zona austriaca sudtirolese in cui è stata ritrovata. Ma guarda caso, quel punto particolare – esaminato dai geografi – non appartiene già all’Austria ma ancora all’Italia, anche se per qualche centinaio di metri. In altre situazioni si sarebbe trattato di una sfiga pazzesca, per l’Europa e per il Mondo, considerati l’amore e la cura che gli italiani spesso mostrano riguardo certi reperti. Si veda quanto accaduto a ritrovamenti archeologici in alcune nostre località e alla valorizzazione che ne è seguita. La vicenda, però, ha avuto anche il suo lato positivo, giacché se ne sono occupati gli altoatesini (che sono italiani solo di fatto, ma tedeschi di etnia). Nel caso la città di Bolzano ha dedicato a Ötzi un museo, che è straordinario.
Tornando a Ötzi, il ritrovamento non è stato importante solo per l’uomo mummificato in sé, ma per il “kit” che quell’uomo si portava appresso, oltre a un efficace armamento… Ci sono dei segni misteriosi sulla pelle di Ötzi, tatuaggi, che addirittura potrebbero indicare le linee dell’agopuntura. In un sacchettino Ötzi custodiva dei pollini cui, alcuni studiosi, avrebbero attribuito capacità antinfiammatorie e forse antibiotiche… Ötzi era vestito di tutto punto, con “abiti” che gli consentivano di valicare passi alpini a condizioni meteo proibitive…
Niente male per un uomo del Neolitico. Smart-phone a parte. Il discorso sarebbe davvero molto lungo… Ma si conclude con un’unica definitiva domanda.
Era più felice quell’uomo del Neolitico rispetto a un uomo contemporaneo? Forse sì. Ma tutto è relativo in questo mondo. Di ieri e di oggi.
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