Chi se lo sarebbe immaginato che queste parole, Droghe e Affini, avrebbero assunto un sinistro significato?
Noi si andava dal Guidali droghiere, nel centro storico di Varese, a comperare caffè, zucchero, sale, saponaria e varechina. Ed era un avvenimento, entrare in quell’antro scuro, zeppo di profumi, col banco tanto alto che quasi non vedevi il droghiere, matita all’orecchio e grembiule nero, le mani perennemente impolverate di chissà quali spezie, che apriva e chiudeva cassetti con la finestrella in vetro, da cui sbirciare misteriosi contenuti. Che prendeva infine un foglio color carta da zucchero, lo arrotolava a mo’ di cono, lo riempiva con la paletta e lo accartocciava in un lampo – mai riuscita a imitarlo-, lo pesava sulla stadera, e ti sparava un prezzo a occhio. Anche dal salumiere – il nostro era in via Manzoni, si chiamava Nembri – si andava di quando in quando: e l’affettatrice, una macchina rosso fuoco di un’imponenza solenne, offriva generosamente larghe sottili fette di un prosciutto squisito, slap slap slap, in un silenzio quasi solenne, perché il motore altro non era che il braccio nerboruto del padrone.
Il pane e il latte, invece, ce lo portavano a casa: sullo zerbino trovavamo la bottiglia di vetro piena al posto del vuoto, col sigillo di stagnola ben chiuso. Sembrava, ai miei occhi, che una magia mattutina facesse apparire silenziosamente il latte nello stesso recipiente dove la sera c’era il nulla.
Il prestinaio, invece, o meglio il garzone del prestino, si faceva sentire, eccome. I primi tempi era un ometto tutto bianco di farina, il Tanetto, che con la gerla in spalla passava di casa in casa a riempire di michette i sacchetti del pane, di stoffa, appesi alla porta: ogni cliente aveva il suo, spesso col nome ricamato ben in vista. Poi arrivò il triciclo, guidato da un ragazzo spericolato, che scampanellando a tutto spiano si faceva aprire i portoni per consegnare i sacchetti pieni e ritirare quelli vuoti: tutti colorati, tutti diversi, una gioia per gli occhi quella montagna di fiorellini, righe, quadretti, pois, nastrini.
La spesa a domicilio la si pagava alla fine del mese, confrontando con quello del negoziante il nostro “libretto” di cliente: un quadernetto azzurro rilegato in nero, tascabile, con i quadretti di copisteria, in cui ogni giorno si segnava la spesa, riportando a fondo pagina la somma settimanale. La copertina, a furia di maneggiarla, era unta e bisunta, le pagine cincischiate e piene di sbavature della matita copiativa con cui si compilava. E ogni volta, o quasi, nascevano discussioni per una voce segnata due volte, per un prezzo sbagliato, per un resto che non tornava. Ma il sistema era codificato e inflessibile: pagare giorno per giorno? E perché mai? Dove sarebbe finita la reciproca tacita fiducia che tenace resisteva negli anni a battibecchi e contestazioni?
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