Esistono due tipi di nonno di frontiera: l’au pair e il colf. La discriminante è dove alloggia.
Se vive nella stessa casa dei nipoti, è un au pair; se vive altrove, siamo nel caso di un nonno colf.
La differenza di condizione è grossomodo quella che passa tra essere ai domiciliari e godere del regime di semilibertà all’incontrario: dentro di giorno, fuori di notte.
La condizione migliore è ovviamente quella del nonno colf: per quanto lunga sia la sua giornata, siccome i nipoti vengono coricati prima delle 20, sbrigate le ultime faccende, caricata la lavastoviglie, più o meno a quell’ora egli si ritira nel suo alloggio e mette il telefono su “non disturbare” e cerca di spassarsela.
Una volta ho affittato in una stanza con la cable TV. Una risorsa. Peccato che la scorta di cioccolato di Modica che mi ero portato da casa è finita quasi subito.
Il nonno colf gode anche di un momento di libertà prima di prendere servizio verso le 7:30, quando i nipoti iniziano a dare segno di vita.
Per quanto tiri tardi con Orange is the new black o El Chapo, oppure sentendo alla radio la rassegna stampa dei giornali italiani di domani – le 22 in California corrispondono alle 7 del giorno dopo in Italia –, il nonno di frontiera tende a svegliarsi la mattina presto, perché fatica ad adattarsi al fuso orario locale. Anche a prendersi il tempo per una rasatura perfetta e una doccia oceanica ora che la siccità in California è finita, verso le sei e tre quarti esce di casa e va a fare colazione al bar.
Qui, di fronte al rituale cappuccino e croissant – cercando bene se ne trovano di ottimi, paragonabili a quelli di una boulangerie parigina, ha un momento di “vita come prima” scorrendo i siti di informazione italiani sul telefono e scambiando qualche messaggio con l’Italia, dove sono le quattro del pomeriggio e vedono la sera avvicinarsi. Nessuno si insospettisce se parli con lui, anzi, e quindi è facile scambiare quattro parole con gli altri avventori: quattro giovani signore abbigliatissime che, caschetto in testa, mangiano prima di una pedalata su bicilette spaziali; una coppia con un cane, che ha trovato anche lui il suo confort su un cuscino a fianco di una ciotola d’acqua, messi dal gestore vicino alla panchina sotto il portico esterno; il barista che, quando ti presenti alle sette la domenica mattina, non ha ancora messo in pressione la macchina del caffè e, quindi, bisogna pur ammazzare il tempo…
Ben più complicata è la condizione del nonno au pair. Niente serie TV, ma cartoni animati. Niente croissant fragrante, ma cereali integrali biologici, consumati in religioso silenzio – che speriamo si sveglino il più tardi possibile – mandando a memoria la tabella delle loro qualità nutrizionali riportato sul retro della confezione. Niente cappuccio con cioccolato, ma tea verde o, a scelta, yogi tea, sorseggiato contemplando, non senza una certa apprensione e qualche riflessione sul lumpenproletariat, un enorme, ma veramente enorme, mucchio di calzini, pantaloni, magliette, biancheria varia per infante e adulto che, recuperato dalla asciugatrice il cui cestello è grande come la caverna di Polifemo, occupa l’intera superficie di un tavolo da pranzo per 10 commensali sul quale era stato “dimenticato” la sera precedente.
Non è che il colf tutto questo lo scansi, ma il suo regime di lavoro gli consente di fare finta per alcune ore che la questione non esista.
Il problema che si apre ora è che, sia egli a piede più o meno libero, in tale situazione il nonno di frontiera ci si caccia da sé e con trasporto. Ad essere nonno di frontiera uno ci è “portato”: deve averne l’attitudine e non deve resistere ad un caso del destino.
La frontiera del nonno è un Ovest interiore inesplorato, una Far West verso il quale egli si incammina resiliente.
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