Il caffè espresso è l’unità di misura dello scarto tra i popoli, la misura dello scostamento tra le loro weltanschauung che si apprezza valutando spessore e sfumature dell’aroma dei loro caffè.
Questa affermazione mette in chiaro una faccenda che riguarda la contingenza del nonno di frontiera.
Egli vive una condizione di spaesamento, sensazione che si sviluppa quando una situazione, pur venendo avvertita come familiare, genera confusione ed estraneità.
Lo spaesamento del nonno di frontiera ha tre diverse sfaccettature.
In primo luogo, il nonno di frontiera è letteralmente spaesato, nel senso che è fuori dal suo paese. Per quanto mi riguarda, vedere il mondo è bellissimo, anche perché si ha la gioia di tornare a casa. Supponendo che ancora persista nel profondo di ciascuno di noi una traccia della primordiale separazione tra raccoglitori nomadi e agricoltori stanziali, io faccio parte di un’orda di coltivatori. Quindi, pur provando piacere a viaggiare per andare a trovare i parenti nomadi, la mia palafitta è sempre la mia palafitta.
In secondo luogo, il nonno di frontiera è spaesato perché rivive una circostanza della quale ha perso memoria.
Si tratta della situazione di chi ha a che fare con i bambini sempre ed in ogni momento, stato dal quale è uscito da tempo, al quale non ha più abitudine, del quale conserva un ricordo impreciso, ed al quale non è più allenato.
In terzo luogo, siccome in lui iniziano a manifestarsi certi segni di vecchiezza sotto forma di callosità del carattere, inspessimenti della tolleranza, smagliature della volontà, a volte la infinita gratitudine verso la generosità del destino che gli ha permesso di avere a che fare con i nipoti, dando un senso profondo alla sua esistenza, si stempera nel desiderio di fuga. Ne segue quella sensazione di estraneità, alla quale si faceva cenno sopra.
Nella sua posizione di spaesato, il nonno di frontiera carica il caffè, soprattutto se espresso, di un valore simbolico che eccede l’oggettività fenomenica dello stesso, per trasformarlo nell’icona della casa, nella metafora delle mura domestiche, nel simulacro di quel giardino delle delizie che è la caffetteria sotto casa.
La conseguenza di questa attribuzione di significati trascendenti è che il “momento del caffè”, cioè quando il nonno di frontiera in trasferta si beve il suo caffè, diventa un attimo di ricongiungimento temporaneo, ideale e reale, con la condizione di “libero nonno di frontiera a casa sua”.
Tuttavia, perché la magia possa compiersi e il prodigio avere luogo, è necessario che la bevanda raggiunga certi standard qualitativi. Un pessimo caffè non solo non ricongiunge con lo spirito di casa, ma, anzi, ne conferma dolorosamente la distanza.
Ora, il caffè negli USA è, diciamo, diverso. Lo scarto è evidente. Il caffè americano è intimamente, culturalmente, profondamente, inesorabilmente diverso. Non c’è modo di ritrovare quell’aroma al quale siamo abituati, nemmeno nel bar gestito dal più verace napoletano.
Al nonno di frontiera non rimane che una sola possibilità per mettere in atto il rito con la speranza che il sortilegio accada.
Una volta messi a letto i nipoti per il riposino pomeridiano, date amorevoli indicazioni alla figlia perché faccia altrettanto che “hai una faccia proprio stanca, e non ti preoccupare che ai panni da piegare ci penso io”, nel silenzio della casa e senza fare il minimo rumore, in perfetta solitudine, leggendo il Post online, elevando un pensiero di riconoscenza all’omino coi baffi, preparare la moka.
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