C’è anche un po’ della nostra città nella storia di padre Pietro Tiboni, comboniano morto il 13 giugno scorso a 92 anni. Nel 1969 il già 44enne missionario, da poco espulso dal regime islamista del Sudan insieme ad altri cento sacerdoti e quindi ricollocato in Uganda, conobbe a Kitgum un gruppo di giovani medici varesini di CL che erano lì per fare volontariato internazionale: l’ incontro fu per lui una rivelazione.
Quelle famiglie che si chiamavano Guffanti, Salandini prima, Ciantia e Reggiori poi, furono il tramite di un orizzonte inaspettato.
Spesso Tiboni ricordava la visita del fondatore di Comunione e Liberazione a Kitgum, qualche anno dopo, nel quale aveva rivissuto l’esperienza di Giovanni e Andrea al Giordano. «Quell’incontro in cui don Giussani ha guardato me, e io lui, è stato l’inizio di questa nostra storia», amava ripetere, stupito e grato.
Tiboni appartiene a quella schiera di centinaia e centinaia di missionari italiani che, nell’anonimato dei media e lontano dal clamore del successo, conducono una vita di testimonianza nascosta ma che, come la trama dell’ordito, tiene insieme i pezzi della società. Se oggi esistono comunità di CL con centinaia di appartenenti e simpatizzanti a Kampala, Hoima, Gulu e Kitgum e significative opere sociali nate dalla loro esperienza, come i Meeting Point, lo si deve a persone come Tiboni che hanno introdotto schiere di giovani africani a conoscere la bellezza di Cristo.
Quando lo incontravo a Roma nei primi anni ’80, di ritorno da una delle sue missioni ma anche semplicemente desideroso di visitare le famiglie che aveva conosciuto nelle sue prime esperienze sacerdotali nella capitale, restavo sempre colpito dalla sua fede. Un affidamento così radicale da avere composto persino una preghiera ‘Atto di Consacrazione a Maria’ che faceva recitare spesso anche nei luoghi più impensati: una volta me la propose al Meeting di Rimini in mezzo a gente che andava e veniva tra uno stand e l’altro.
Proprio a Rimini nel corso di una testimonianza resa nel 1988 raccontò quale fosse il ‘segreto’ della sua straordinaria fecondità: “Ricordo che nell’agosto ’86 ero andato a Kitgum per un corso che cadeva nei giorni della festa dell’Assunta. Incominciò la guerriglia e le strade furono chiuse, cosicché rimasi là per quattro mesi. Il lavoro diminuiva perché gli attacchi erano molto frequenti, anche giornalieri; gli ospedali erano pieni di feriti e la gente era disperata perché non aveva da mangiare. Anche i nostri volontari non potevano sviluppare, in quelle condizioni, quei progetti per cui erano là. Così ho detto loro: «È importante studiare a fondo il senso religioso».
Qualcuno osservò: «Ma che valore ha studiare il senso religioso quando ti trovi in una situazione in cui le pallottole ti sfiorano, in cui ci sono dei problemi immediati di sussistenza?».
Io continuavo a ripetere: «Utilizziamo il tempo libero che abbiamo e studiamo il senso religioso». Così facevo “scuola di senso religioso” tre o anche quattro volte al giorno in inglese, in acholiz, e poi in italiano con i volontari. Abbiamo fatto un lavoro intenso dentro quella situazione, ed abbiamo scoperto, che a noi e agli africani questo approfondimento ha permesso di affrontare la realtà. Non sono state né la nostra bravura, né quella degli africani che hanno portato una vita così piena dentro una situazione tanto difficile, ma è stato proprio il lavoro per scoprire la grandezza del senso religioso dentro la concretezza della vita”.
Senza domanda sull’umano nemmeno Cristo può essere percepito come risposta. E questo vale a Kampala, come a Varese, come a Roma. Grazie padre Tiboni.
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