Il 24 giugno 1967 – due giorni prima di morire – don Lorenzo Milani, non potendo più parlare a causa della malattia con cui lottava da sette anni, scrive un bigliettino: “Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello passa nella cruna di un ago”. In questa espressione sta forse il segreto di tutta l’opera di don Lorenzo: amare Dio nel prossimo, soprattutto nei più poveri.
Lorenzo era nato a Milano il 27 maggio 1923. La famiglia è ricca non solo di beni materiali, ma soprattutto di cultura. I due genitori sono sposati solo civilmente. La madre è ebrea. Lorenzo frequenta regolarmente le scuole e dimostra una apprezzabile intelligenza. Dopo la licenza liceale, s’iscrive a Brera, apre un piccolo studio d’artista. Nella primavera del ’43, quando la città è occupata dalle truppe naziste, il giovane Milani si trasferisce a Firenze.
Va alla ricerca di don Raffaele Bensi, un prete fiorentino noto in tutta la città per la sua capacità d’ascolto, di accompagnamento spirituale, educatore di mezza Firenze e gli esprime la sua volontà di farsi prete. In breve tempo sarà battezzato e cresimato. Nel 1947 sarà ordinato prete e non dimostrerà mai segno di ripensamento o dubbi su questa scelta.
Mi sono sempre chiesto perché “il giovinetto” di famiglia agnostica, sofisticata, agiata avesse voluto farsi prete. Crisi spirituale? Delusione amorosa? Intima chiamata di Dio? Nulla di tutto chiesto. Nelle numerosissime lettere che don Lorenzo scrive alla mamma, ai parenti, agli amici, ai suoi ragazzi di Barbiana non troviamo cenno a questa sua decisione. Solo in una lettera alla mamma, in occasione dell’accesso al primo grado del sacerdozio, scrive: “Mi sono preso tutte le libertà possibili e immaginabili e poi mi sono accorto che c’era una grande cosa (la più grande) che potevo fare. Prima di morire, mi voglio prendere anche questa libertà di dir Messa…”. Don Lorenzo, dunque, si fa prete per sentirsi libero: libero di amare fuori dagli schemi, libero di pensare, di giudicare e di condannare. La sua inquietudine derivava dal suo innamoramento per la verità in cui si riflette il volto di Dio.
Bisogna comprendere la condizione della Chiesa in quell’ epoca pre-conciliare: chiese belle, funzioni decorose, associazioni fiorenti; l’educazione collettiva, il catechismo fissato sulle formule, del tutto assente il linguaggio biblico, prediche a sfondo moralista. Il pericolo comunista costringe la Chiesa a serrare i ranghi, non dialoga con il mondo, soprattutto con quello della cultura. Verrebbe da pensare che don Lorenzo, in mezzo a questa rocca che si sente assediata, scelga la strada della libertà per vivere il suo radicalismo evangelico andando incontro proprio a coloro che sono chiamati “lontani” o che vivono ai margini perché poveri. Intuisce che il Vangelo proclamato se non è coniugato con la vita quotidiana è evanescente.
Nell’ottobre dello stesso anno viene inviato a San Donato di Calenzano come aiuto del vecchio parroco ammalato. Mentre in Italia si preparano i giorni dell’onnipotenza che porteranno i cattolici a intrupparsi nella Democrazia cristiana, Don Lorenzo conosce il grave stato di disagio in cui vive la sua gente, vede le ingiustizie sociali, conosce la profondità del rancore che essa nutre verso la classe dirigente, il governo e il clero. Fonda una scuola popolare, dialoga con tutti, lo si accusa di essere classista.
I suoi confratelli preti mormorano per queste sue scelte, i benestanti lo accusano di essere comunista, diventa motivo di mormorazioni che riguardano il suo celibato. L’Arcivescovo decide di trasferirlo a Barbiana, una parrocchia che aveva deciso di sopprimere: un ideale penitenziario per un prete scomodo; è il 1954.
Nel frattempo, il giovane prete scrive “Esperienze pastorali” che esce con l’imprimatur della curia fiorentina e con una bella prefazione dell’arcivescovo di Camerino “Quel che importa e che ha un valore immenso nel suo lavoro è l’esame severo, inesorabile che Ella [don Milani] fa sulle consuete nostre attività pastorali”.
Oggi a leggere quel libretto verrebbe da sorridere, ma a quei tempi poteva sembrare un vero atto di denuncia verso la Chiesa: le sue accuse sembrano simili a un colpo di frustra benefico che cala sulle sonnolenti coscienze dei cristiani di allora.
Insorgono i cattolici organizzati nell’Azione Cattolica, i gesuiti di “Civiltà cattolica” stroncano il libro con un’ampia e pesante accusa finchè il Sant’Uffizio fa ritirare il libro già stampato, ma che molti acquistano sottobanco anche nelle librerie cattoliche. Che cosa c’è di pastoralmente rilevante nello scritto di don Milani? C’è la condanna di un’educazione cattolica troppo uniformata, che non bada alla singolarità e irripetibilità della persona, c’è la critica per chi fa della parrocchia un punto di attrazione a tutti i costi, c’è il richiamo a farsi povero tra i poveri, c’è la disapprovazione di un certo parlare e agire ecclesiastico troppo astratto e formalistico.
È stato profeta don Milani? Sì, se lo consideriamo un prete che indica strade nuove da percorrere per giungere a una novità di vita, no se si pensa che egli predicesse il Vaticano II. Anticipatore del Concilio? No, perché è stato oltrepassato dagli eventi: l’elezione di Giovanni XXIII, il Concilio, la primavera conciliare, la riforma liturgica, l’importanza della collegialità e la scoperta della chiesa locale.
Da dove il Priore di Barbiana traeva il coraggio per le sue denunce e l’audacia dei suoi metodi? Dalla parola umana e dalla parola di Dio.
L’uomo è ciò che è per la parola. Quando un uomo pronuncia una parola non è più sua, ma di chi l’ode. Per questo la parola deve essere rigorosa, sincera, franca, se occorre, graffiante, animosa, pungente, ironica: nei suoi scritti il prete fiorentino usa un linguaggio stringato, senza orpelli, per non farsi fraintendere e per rispettare l’interlocutore in modo che la sua parola non possa essere smentita, ritrattata. In tal modo esprime la propria relazione personale con la verità.
Quando insegnerà ai suoi alunni a scrivere la “lettera alla professoressa”, raccomanderà loro di documentarsi, di usare il dizionario, di togliere le ampollosità, ma di lasciare pure le espressioni locali se queste rendono meglio il pensiero di quelle volute dai letterati.
Con questo stile, nitido nel suo rigore, scrive e rende pubblica la risposta ad alcuni cappellani militari della Toscana che considerano “l’obiezione di coscienza, estranea al comandamento cristiano dell’amore, un’ espressione di viltà”. Milani, che è un pacifista, spacca l’argomento tra guerre difensive e guerre di aggressione, col metro della storia dimostra come ogni guerra sia un’inutile strage. Un generale lo definisce “ipocrita, pazzo, ignorante, mascalzone, disfattista e traditore”. La lettera di don Milani verrà incriminata per apologia di reato, il Priore verrà processato e assolto, ma la Cassazione lo condannerà post mortem. La risposta ai cappellani militari verrà pubblicata in un libro dal titolo: ”L’ubbidienza non è più una virtù” e diverrà famosa.
Don Milani coglie fortemente la potenza della Parola di Dio che insegna e arricchisce. Don Benzi scrive:” S’ingozzava di Vangelo”. Dalla Scrittura don Lorenzo cerca di attuare il passaggio dal testo alla vita e trae un prezioso aiuto per aiutarlo a superare il fossato tra fede e vita, tra spiritualità e quotidianità.
Prima di morire il 26 giugno di cinquant’anni fa, allo stesso padre spirituale comunica questo pensiero tramite un bigliettino:” Ora comincio a essere stanco oltre i limiti della mia capacità. Ma spero che non sia una bestemmia”.
Raccogliendosi in preghiera sulla tomba di don Milani martedì scorso, Francesco ha colmato le ferite inferte al priore di Barbiana che ha fatto dell’amore la sua regola di vita.
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