Il secolo XX è stato teatro di grandi sconvolgimenti sociali, ma anche di profonde rivoluzioni scientifiche: il mondo fisico è diventato un mondo relativistico e indeterministico, nel rapporto osservatore-osservato è entrata la soggettività (principio di indeterminazione); le neuroscienze hanno cambiato il paradigma con cui guardiamo al vivente e alla nostra stessa specie.
Quali riflessi hanno avuto questi mutamenti nella visione del mondo, dall’infinitamente piccolo alla scala cosmica, sulle forme di organizzazione sociale e politica del nostro pianeta? È questa la domanda che si pongono Mario Agostinelli e Debora Rizzuto nel libro “Il mondo al tempo dei quanti. Perché il futuro non è più quello di una volta” (Mimesi), e la risposta è: poco o niente, almeno a livello istituzionale. E invece, per loro, è proprio sulla visione del mondo proposta dalle rivoluzioni scientifiche che si dovrebbe basare un approccio nuovo e alternativo alla fuoriuscita dalla crisi che ci soffoca: crisi ambientale, economica, finanziaria, ma anche e soprattutto democratica.
Gli autori – uno storico sindacalista, ambientalista e ricercatore e una giovane fisica – partono da una descrizione, chiara e competente, dei nuovi paradigmi aperti dalla fisica novecentesca e dal loro impatto sulla visione del mondo, per passare poi ad analizzare quali siano state le ricadute sul piano dei rapporti sociali e di produzione. E la risposta è ancora netta: il potere economico-tecnocratico ha saputo incorporare queste scoperte in una nuova modalità di gestione del mondo, mentre la politica ha continuato ottusamente a ragionare in maniera deterministica, ottocentesca, legata al paradigma di una crescita senza limiti, e la massa dell’opinione pubblica non ha avuto accesso al patrimonio di informazioni legate a questa svolta e non ha potuto, di conseguenza, esercitare nessun controllo critico, a livello individuale e organizzato, sulle sue implicazioni.
Relatività e quantistica sono entrate prepotentemente nelle tecnologie che utilizziamo (o che ci fanno utilizzare) tutti i giorni: le informazioni viaggiano alla velocità della luce, le transazioni finanziarie avvengono in nanosecondi, tempo e spazio sono radicalmente diversi da quelli a cui la nostra specie era adattata; sostanzialmente, non siamo più padroni del tempo, compresso artificialmente da scelte che vengono imposte dai poteri dell’economia globalizzata che ha sterilizzato e asservito la politica.
E qui c’è una prima riflessione forte: la velocità non è facilmente compatibile con la democrazia, fatta di confronto, di scambi, di mediazioni dei conflitti. E il deficit di democrazia ha una faccia peculiare: l’asimmetria di poteri e diritti. Asimmetria nelle guerre, dove lo scontro è ormai ridotto in molti casi al rapporto cacciato-cacciatore, con droni che scovano le prede comandati da qualcuno che sta a migliaia di chilometri di distanza; asimmetria nell’accesso alla rete, dove lo spazio apparentemente pubblico è condizionato da quella che gli autori chiamano una “torsione privata” della sua architettura; asimmetria nei conflitti di lavoro.
Riguardo a questo ultimo aspetto, come esempio viene opportunamente citata la possibilità di controllo on line e a distanza dei dipendenti introdotta con il Jobs act. Gli autori fanno notare come questi provvedimenti spostino sul piano individuale conflitti che riguardano le libertà collettive, senza che le organizzazioni sindacali sappiano intervenire a questo livello: un grave limite.
Il libro parla di molto altro, basandosi su una grande massa di fonti: della cecità della politica di fronte ai limiti dello sviluppo lineare (o esponenziale), di scelte energetiche sbagliate, di tecnologie militari. Affronta anche in maniera molto stimolante il tema dell’uso di strumenti analitici estremamente sofisticati nelle previsioni finanziarie: il problema non è l’algo-ritmo, ma le ipotesi e il modello che si mettono in ingresso, che in molti casi sono fondati solo sulle aspettative di quello che si vuole ottenere. Tutto il testo è pervaso da una fortissima tensione fra quello che i nuovi paradigmi scientifici potrebbero offrire allo sviluppo della società umana e l’utilizzo “deviato”, a favore di pochi, che ne è stato fatto.
Ma questa tensione lascia aperto un problema: come è stato possibile questo sviluppo deviato? Siccome siamo d’accordo che la scienza è un prodotto sociale, per cambiare i rapporti sociali basta adottare un paradigma scientifico più appropriato? La politica istituzionale, a livello nostrano e mondiale, è ottusa, cieca e asservita perché non applica la rivoluzione scientifica quantistico/relativistica? Si rischia forse un’eccessiva semplificazione, e involontariamente si potrebbe ricadere nel vecchia questione se la scienza sia neutrale o no.
Con un po’ di semplificazione ci si può chiedere se valga forse la dicotomia scienza buona/tecnologia cattiva? Le due facce della questione non sono così nettamente separabili. Proprio per un utilizzo efficace delle riflessioni e delle argomentazioni che il libro propone questo è un punto su cui è necessaria una discussione approfondita.
La società in cui viviamo ha profondamente accresciuto le diseguaglianze e modificato i rapporti di forza a favore di una microscopica minoranza per una serie di cause e eventi complessi. La colpa dei nostri politici non è (solo) culturale, e lo stesso vale per i limiti delle forze di sinistra, che si sono adeguate al paradigma liberista o si sono chiuse in una sterile opposizione istituzionale. Non so se leggere Heisenberg o Einstein li avrebbe redenti…
Certo, un rapporto scienza/tecnologia diverso da quello attuale, più socialmente condiviso, controllato e cosciente dei limiti sarebbe uno strumento essenziale per uno futuro meno brutale e insostenibile per la nostra maldestra specie. Gli autori presentano, nei capitoli conclusivi, una serie di indicazioni interessanti e condivisibili, alcune note, altre innovative: tassazione sulle transazioni finanziarie (che avrebbe anche l’effetto importante di rallentare, e rendere quindi più controllabile il processo) e sulle emissioni; controllo sociale dei database (impadronirsi degli algoritmi); salario di cittadinanza, per consentire a tutti un controllo sul proprio tempo; accesso universale a un’educazione scientifica di massa, che fornisca elementi di comprensione e di valutazione critica. Altre proposte sono più gestibili dal basso, come gruppi di acquisto per il fotovoltaico, inserimento nei contratti collettivi di lavoro della scelta degli algoritmi e delle piattaforme software che il lavoratore deve utilizzare, insieme alla ricontrattazione della formazione in orario di lavoro di nuove figure professionali.
In merito agli strumenti politici per realizzare questi obiettivi, il discorso si fa comprensibilmente più sfumato. Gli autori partono dalla constatazione che la sinistra tradizionale non sta combattendo i mali, ma lenendo i danni (ci riesce ben poco); propongono la necessità di una democrazia radicata nel territorio e di una ricostruzione della rappresentanza; affermano che ciò non si può fare con il personale politico della sconfitta; fanno giustamente risalire i guasti alla professionalizzazione della politica avvenuta a partire dagli anni ottanta. Sembrano però fare riferimento a un socialismo democratico che, nelle sue forme concrete, non pare tanto in salute. La parola d’ordine è “svegliare i sonnambuli”.
Sì, ma come? Curiosamente, una parziale risposta a queste domande più “politiche” viene dalla postfazione di Giorgio Galli: contributo non rilevante nella prospettiva di un libro importante e utile come questo, in quanto presenta una serie di proposte alquanto opinabili. Una per tutte, la più forte: siccome il potere politico globale è esercitato nei fatti dai consigli di amministrazione di circa 500 multinazionali, la proposta per una nuova rappresentanza democratica è l’elezione a suffragio universale, da parte di 7 miliardi di individui, dei Ceo (Chief Executive Officer ossia amministratori delegati) o di una parte di questi consigli. Mah. Sarebbe come proporre l’elezione diretta di Babbo Natale da parte di un paio di miliardi di bambini del mondo: pensate che festa!
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