Un panegirico, non un’apologia, se dovessimo dare il nome corretto allo scritto che sto per iniziare. Ma non ne ha bisogno, Pigi Bernareggi, di nessuno dei due. Nato a Milano nel 1939, studente del Berchet con don Giussani, ha lasciato un’impronta significativa in Varese nel passaggio di Gioventù Studentesca dallo statu nascenti alla dimensione di un movimento rilevante nel mondo cattolico, non solo studentesco, degli anni ’60. Ancor più significativo il suo rapporto con un non piccolo gruppo di giovani, tra cui chi scrive. Nel 1964 è partito come missionario in Brasile nella diocesi di Belo Horizonte, insieme ad altri coetanei, tra cui un mio amico.
Lunedì scorso, a Milano, ha accettato di incontrarsi con tanti vecchi amici e non pochi giovani, di fatto a lui sconosciuti, ma forse in spirito altrettanto vicini. Il titolo che gli era stato assegnato come tema era decisamente paradossale: “Dio rinasce in un incontro”. Non voglio spiegarlo, lo si capirà seguendo il filo dell’incontro. Non ho nemmeno la pretesa di farne la cronaca, a rischio di perdere qualche punto essenziale per mia incapacità. Riferisco solo, (Pigi me lo perdoni) quello che più mi ha colpito. Comincio dalla prima domanda e dalla risposta.
D) Che uragano era don Giussani nell’ottobre del 1954?
R) (Si crea un momento di silenzio, che Pigi prolunga, poi, mentre tende di scatto l’indice della destra verso il pubblico, esplode) TU! Fu il suo modo di prenderci sul serio come persone, di provocare l’incontro. Se non rinasce nell’incontro, nella proposta di una persona ad un altro, Dio è come se non esistesse. Invece esiste ora, Cristo vivo e insieme morto e insieme risorto proprio in questo istante, in ogni istante. Agora! Ora!
D) Perché sei partito? Che cosa cercavi per te?
R) Ero stato invitato da una ragazza agli incontri del lunedì, dove si metteva a tema la vocazione, ma il momento decisivo fu alle vacanze estive di Madonna di Campiglio, mentre in silenzio don Giussani ci faceva contemplare il Brenta nella luce del tramonto. Mi si avvicina, punta il dito e dice: Tu! Non vuoi andare in Brasile a fare il prete? Dopo una notte di riflessione, rispondo: Non ho nulla in contrario. E lui: Bravo, proprio così bisogna fare.
A questo punto Pigi inizia a recitare una poesia di Clemente Rebora: ‘Dall’immagine tesa’, ad un tratto s’incespica, sono vicino, gli suggerisco la continuazione, è la poesia con cui iniziò una tre giorni dei ‘giessini’ a Villa Cagnola di Gazzada nel 1961, non me la sono mai scordata del tutto. Ve la riporto:
Dall’immagine tesa Dall’immagine tesaD) Questa rinuncia a seguire un proprio progetto è la povertà di spirito?
R) Sì, ma badate, povertà non significa miseria. Le favelas non sono misere, nel loro esistere scrivono un discorso, un messaggio alla città. Un architetto italiano ha scritto un libro: ‘Valori e cultura del mondo favelado’, ogni mattina dalle favelas parte una ricchezza umana per tutta la città. Le favelas vanno urbanizzate, non estirpate. Oggi c’è una legge federale che fa delle favela un condominio orizzontale. Da tempo non posso più fare il parroco, ma continuo ad occuparmi dei ‘senza terra urbani’
D) È questo che vuole Papa Francesco, quando parla di ‘Chiesa in uscita’?
R) Certo, ma non è niente di diverso da quello che facevamo da studenti di GS, cercando di vivere Cristo nella scuola, andando a far caritativa in Bassa o raccogliendo le decime per le missioni. Anche i gruppi di fraternità non servono a stare tra di noi, ma per la presenza nell’ambiente. Cominciando dalle quattro pareti di casa propria. Non riduciamo la Chiesa a ONG, il nostro compito è la comunità cristiana.
D) Come si può fare dentro un cambiamento d’epoca?
R) La globalizzazione è un fatto, evidente in Brasile, come dappertutto. Ma già Pio XI un secolo fa diceva che occorrerebbe un governo mondiale, purché giusto. Oggi solo i disastri e l’avidità di chi già è ricco è globale. Anche la nostra indifferenza. Dobbiamo svegliarci e considerare che abbiamo in mano la dottrina sociale della Chiesa, che non è affatto superata, anzi. Ma il punto d’inizio è educarci. Don Giussani ci ha mandato in bassa per educarci, non per risolvere i problemi. Quando un ragazzo si lamentò per il freddo e la nebbia, lui si animò: proprio per questo vi ho mandati, per condividere. Questo è l’incontro: mettere in comune sé, cominciando da casa propria. Questo è essere in movimento, questa è la misericordia: la nostra miseria raggiunta dal cuore di Dio. Ci dà la certezza di poter cambiare e questo ci dà pace.
Non so e non voglio aggiungere altro. Mi auguro che sia presto disponibile la trascrizione letterale dell’incontro, che farebbe ancor più chiaramente trasparire l’unicità straordinaria di una coerenza vissuta come conseguenza, paradossalmente ordinaria, di una fede semplicissima.
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