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Chiesa

DON PRIMO, UN PROFETA

EDOARDO ZIN - 16/06/2017

don-primo“Ecco qui la tromba dello Spirito Santo in Terra mantovana. Caro don Mazzolari, sono sei anni che non ci vediamo!” disse Giovanni XXIII a mezzogiorno del 5 febbraio 1959, avvicinandosi a don Primo Mazzolari che riceveva in udienza privata.

In verità, erano passati solo quattro anni da quando il patriarca aveva incontrato a Venezia don Primo, arrivato nella città lagunare per dettare un ritiro ai giovani democratici cristiani del Veneto. L’udienza papale era stata ostacolata fino al giorno prima perché si vociferava che fossero in vista provvedimenti disciplinari da parte dei soliti zelanti curiali, ma in soccorso di don Primo arrivò don Loris Capovilla, segretario del “papa buono”, che gli aprì la porta dell’appartamento pontificio.

Il parroco di Bozzolo annoterà nel suo diario: ” Il papa mi disse: ‘A volte vedendo andar male certe cose, verrebbe voglia di fare un passo. Ma il Papa ha i suoi limiti e in certi casi non può che pregare e soffrire’. Esco contento. Ho dimenticato tutto”.

Chissà se papa Francesco, recandosi martedì prossimo sulle tombe di don Mazzolari e di don Milani, sarà consapevole che con quel suo atto restituirà a questi profeti della Chiesa italiana non solo la stima della Chiesa, ma il merito che i due preti si sono procurato per il bene da loro compiuto, per la libertà testimoniata, per la carità praticata e per la Verità da loro sempre proclamata, in tempi in cui il loro cuore era trapassato da frecce lanciate dagli stessi fratelli della fede che vedevano in loro pericolosi eversivi perché amici dei poveri e precursori di una Chiesa in cammino con essi verso una nuova umanità.

Don Mazzolari fu un profeta del suo tempo perché cercò di tradurre lo sguardo di Dio nella storia in cui era immerso.

Nato nel 1890 in una povera famiglia contadina del mantovano, Primo impara a mungere, attaccare i buoi, guidare il biroccio. A dodici anni entra nel seminario di Cremona, dove è vescovo Geremia Bonomelli, accusato di essere modernista. Negli studi, Primo si dimostra di buon ingegno, legge con passione e la sua aspirazione è diventare scrittore.

Viene ordinato sacerdote nel 1912 e inviato dapprima in un paesino “rossissimo”, poi ad aiutare un prete mezzo matto, successivamente ad assistere gli emigrati italiani al confine svizzero-tedesco.

Vive la prima guerra mondiale dapprima come soldato di sanità e successivamente, a guerra terminata, come cappellano militare in Alta Slesia. Nel 1920 viene mandato a Bozzolo, un paese socialista e anticlericale; da lì il vescovo lo trasferisce a Cicognana, un paese del Po “dove – scrive don Primo – dall’argine posso contemplare i meravigliosi tramonti della terra lombarda”.

 Sorge intanto il “sole” del fascismo: nel povero paese, il parroco alza alta la sua voce per difendere la sua gente dedita all’agricoltura e alla costruzione di scope: arrivano le squadre delle spedizioni punitive, si rompono ossa e manganelli, si consumano litri di olio di ricino. Il nuovo vescovo lo rimanda a Bozzolo.

Durante la Repubblica sociale di Salò, don Primo, dopo la scoperta di un piccolo nucleo di resistenza e l’assassinio di due giovani universitari, è costretto a darsi alla macchia e a nascondersi in una casa di un ortolano e in una stanza-cella del campanile.

E venne il tempo della democrazia: don Primo sceglie di continuare a servire i poveri, a fare della sua parrocchia una casa aperta a tutti, credenti e non credenti.

Come tutti i profeti, la parola di don Primo irrompe per le porte della notte e con la sua voce roca e appassionata fa sprizzare, come dice un aforismo rabbinico, scintille divine dalle pietre. Accusa lo spiritualismo aristocratico di favorire il materialismo storico: ”Urge – egli scrive – provvedere adesso e non domani ai bisogni del corpo se vogliamo salvaguardare i beni dello spirito”. Viene il periodo del “miracolo economico” e “il parroco dei lontani” denuncia l’espansione economica non controllata secondo obiettivi precisi, che rischia di generare ingiustizie, squilibri e nuove miserie. Ce l’ha anche con l’ostentazione del lusso nella chiesa (“sono schiaffi al povero”) e condanna le spese milionarie per le luminarie per il passaggio della Madonna Pellegrina, per il trionfalismo ecclesiastico, stigmatizza le croci pettorali d’oro impreziosite da pietre preziose dei vescovi (“per avere un cuore di pastore, al tuo vescovo basterebbe un pastorale di legno”).

Come profeta, il parroco di Bozzolo cerca “un orecchio come patria, un orecchio non ostruito da orecchie” (Nelly Sachs). Viene ascoltato dai poveri, ma non dai potenti. A causa dei suoi scritti, delle sue opere, dei suoi articoli, dei suoi discorsi, del periodico da lui fondato – “Adesso” (“E adesso chi ha un mantello lo venda per comperare una spada”) – viene ammonito dal Santo Uffizio, censurato, un povero editore è costretto a vendere sottobanco un libro “proibito”, gli viene tolta la direzione di “Adesso” perché ai tempi delle crociate, la politica non permetteva il dialogo. Don Primo, “obbedientissimo in Cristo” (cosi firmava le sue difese davanti a cardinali e vescovi!), portava la sua croce in silenzio, senza lamenti e senza appelli, pagando i suoi torti e la sua fedeltà alla Chiesa.

Eppure c’è qualcuno che, con una bontà paterna, lo comprende: Giovanni Battista Montini, da arcivescovo di Milano, lo invita a predicare alla Missione cittadina del 1953 e, divenuto Pontefice, inviterà i parrocchiani di Bozzolo a “coltivare la memoria di don Primo, imitare il suo amore e la sua fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa”.

Nel suo profetare, nel suo parlar chiaro, don Primo accoglie l’invito che Isaia rivolgeva ai figli ribelli che dicevano: ”Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni” (30, 8) e chiedevano quiete, tranquillità. No, lui scuoteva le anime “perché un’anima che non ha tormenti ha una fede tiepida”. È pastore di una piccola comunità “che non ha confini da difendere, ma una maternità da allargare”. Anticipa alcuni cambiamenti liturgici del Vaticano II battezzando in italiano per permettere ai genitori di comprendere il valore di diventare cristiani, nel 1938, durante le leggi razziali, cambia la preghiera del venerdì santo “pro perfidis iudeis” in “ pro tribolatis iudeis”, predica scendendo dal presbiterio. Promuove la maturità del laicato e non sopporta “ascoltare laici che parlano come preti e preti che sono costretti a sostituirsi ai laici, specialmente nell’osare e nel guardare avanti”. Anticipa Francesco nel vedere nella Chiesa un’autorità morale.

 Quando nel 1955 si tiene la conferenza di Bandug, scrive:” Noi avremmo esultato nello spirito se Pio XII, con gesto audacemente paterno, avesse mandato un messaggio laggiù, dove si preparano i destini dei 3/5 dell’umanità”.

Non ho conosciuto don Primo, ma un mio amico fraterno, Rienzo Colla, era un suo discepolo (lo conobbe nel 1939). A Vicenza, Rienzo fondò una piccola, ma preziosa casa editrice: “La Locusta” (nella Bibbia la locusta è il cibo povero dei profeti nel deserto).

Dal 1954 fino al momento della sua scomparsa, avvenuta tre anni fa, Rienzo (“l’eretico cresciuto all’ombra della Basilica Palladiana” come lo definì Oriana Fallaci) pubblicò o ristampò tutte le opere di don Primo, a costo d’immensi sacrifici non solo economici. La corrispondenza tra Rienzo e don Primo – ben 147 lettere! – è stata pubblicata nel 1976.

Quando Rienzo si sentì prossimo a passare all’altra riva, mi chiamò e mi diede due lettere inedite di don Primo: da esse ho tratto alcuni “virgolettati” citati nel presente articolo. La storia dell’amicizia umana e culturale con don Primo è uno dei buoni frutti fatti maturare dalla solitudine dei due profeti pagata ad altissimo prezzo, ma ricca di risposte d’uguale e totale fedeltà.

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