Per potere meglio comprendere i dissensi, più o meno aperti, che parti della Curia, degli Episcopati e dei fedeli, nutrono nei confronti dell’azione, degli atteggiamenti e dei metodi pastorali adottati da papa Francesco, può valere il riferimento alle sue meditazioni sul Discorso dei pastori d’Agostino, Sermone 46 (commento a Ez 34, 1-16), utilizzato già nel tempo in cui, facendo esperienza nella parrocchia del Patriarca San José, di cui fu il primo parroco, riusciva a realizzare una feconda attività pastorale con discrezione, senso d’umiltà, generosità e sentimenti di carità profonda. Nella difficile situazione in cui il pastore si trova di difendere e tutelare il gregge, di recuperare al Vangelo le anime smarrite, sorreggere gli incerti, ricondurre a unità quanti nella discordia si fanno autoreferenziali per coprire i propri interessi, Agostino e Francesco concordano.
Principio fondamentale: “Noi siamo insigniti di due dignità, che occorre ben distinguere, la dignità di cristiani e quella di vescovi. La prima, cioè quella d’essere cristiani, è per noi; l’altra, d’essere vescovi, è per voi”. Nella prima condizione vanno sottolineati i vantaggi che derivano a noi; nel fatto d’essere vescovi, ciò che conta è esclusivamente la vostra utilità, per cui dovremo render conto a Dio anche del nostro ministero. Comunque “ogni vescovo che godesse per il posto che occupa e cercasse il suo onore e guardasse esclusivamente ai suoi interessi privati, sarebbe di quelli che pascono se stessi e non le pecore”. Il verdetto non lascia via di scampo. “Ci aiuterà il Signore a dirvi il vero (senza sconti) e a ciò riusciremo, se non presumeremo di dirvi cose nostre”. Tu predichi di non rubare e intanto rubi (Rom 2,21) dice l’Apostolo. Ebbene in tal caso tu ascolterai chi ti esorta a non rubare, ma non imiterai chi ruba. Ascolta invece ciò che egli ti dice non di suo, ma da parte di Dio (par.22). “Qualunque sia la persona che vi pasce è sempre il Signore a pascervi”.
I buoni pastori nascono in mezzo a buone pecore e non mancheranno mai in una comunità tonificata dal Verbo, limpida, purificata da ogni scisma e da ogni eresia. “Cristo volle immedesimarlo (Pietro) con sé, sicché, consegnando a lui le pecore, il Signore restasse sempre il capo e Pietro rappresentasse il corpo, cioè la Chiesa, e tutt’e due, come lo sposo e la sposa, fossero due in una sola carne (Mt 19,5)2”. Onde la triplice dichiarazione d’amore di Pietro (Io 21, 15-17). Se i pastori si gloriano di qualcosa, ricordino che chi si gloria si glori nel Signore (2 Cor 10,17). Ecco cosa significa pascere Cristo, per Cristo e in Cristo.
Personalmente poi l’Apostolo aveva scelto di vivere con il lavoro delle sue mani, rinunciando a chiedere il latte alle pecore. Il Signore aveva disposto che i banditori del Vangelo dovessero vivere del Vangelo (par.4), ma è pur lecito farsi mantenere dal popolo. I pastori nella loro attività non cerchino il loro tornaconto, dando l’impressione d’annunziare il Vangelo per sbarcare il lunario loro personalmente (par.5).
Nel Discorso 47, Le pecore (Commento a Ez 34, 17-31) c’è l’invito a scongiurare la misericordia di Dio (par.1), a prevenirne il giudizio con la confessione, a essere irreprensibili anche nel comportamento esteriore, a non operare il bene per compiacere gli uomini, a non arrogarsi il nome di angeli, preferendo invece aspettare il tempo della mietitura, a non insuperbirsi della grandezza delle rivelazioni, a non essere il figlio cattivo che si proclama giusto da se stesso. Cristo, raffigurato da David, è il vero pastore e lo è col Padre. “Le pecore e i capri non li conosce nella sua predestinazione e prescienza se non colui che poteva predestinare conoscendo in anticipo”(par.15).
Agostino osserva che gli eretici sono discordi tra loro, ma sono d’accordo contro l’unità della Chiesa (par.27). Esigono d’essere ascoltati, mentre loro ricusano d’ascoltare la Scrittura.
Nel discorso 137, Pastori, mercenari e ladri (Gv 10, 1-16) Agostino stigmatizza coloro, dei quali l’Apostolo (Fil 1,21) dice che predicano il Vangelo per opportunismo, ricercando dalla gente i propri vantaggi: denaro, onori, lodi umane. Predicano il Vangelo a piacimento, volendo ricavare vantaggi e non si preoccupano tanto della salvezza di colui al quale predicano, quanto del proprio tornaconto (par.5). Legano fardelli pesanti e insopportabili e li caricano sulle spalle degli uomini, che essi non vogliono toccare neppure con un dito (Mt 23, 4 ss. – par.8).
Come Agostino nella Chiesa Francesco rinviene una comunione nello spirito variamente articolata secondo doni e servizi, che ne favoriscono la crescita e sgorgano dal suo seno secondo i bisogni, considera che la carità è la meta definitiva cui siamo chiamati. Prima è la necessitas caritatis, in subordine la caritas veritatis. Il pastore ha evangelizzato il teologo.
Lo sfondo è quello del Concilio Vaticano II (Cost. Lumen Gentium, Sacrosanctun Concilium; decreti Optatam totius, Presbyterorum ordinis, Christus Dominus). Gravosa è la sarcina, nulla di più miserabile, funesto e riprovevole davanti a Dio se il ministerium è esercitato negligentemente o con vile adulazione. Dio opera la salvezza indipendentemente dalla santità o dalla cattiveria del ministro, dalla sua sterilità. È la verità che è feconda. Confessioni 10,29,40: Ogni mia speranza è posta nell’immensa grandezza della tua misericordia. “Noi desideriamo essere amati da voi: solo che non vogliamo essere amati per noi “ (In Io. ev. Tr. 6,1).
Nella Chiesa la gente più è semplice, non autoreferenziale, più si trova con papa Francesco, che ripete di continuo: ”Dio non si stanca mai di perdonare “ e che personalmente “non vuole giudicare nessuno”. Da vescovo il papa usava i mezzi pubblici per spostarsi, fruiva di un comune appartamento, si cucinava i pasti da solo, era sempre moderato nei pronunciamenti. Da papa addita e invoca una Chiesa povera per i poveri, considera il servizio come vero potere, si fa prossimo agli ultimi, bandendo la pace, geloso assertore della custodia del creato.
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