Fino alla proclamazione dei risultati pochi, o forse nessuno, potevano immaginare che quella lista di sconosciuti, denominata Lega Lombarda, avrebbe conquistato due seggi in Parlamento. Un evento imprevisto, ma anche un segnale inequivocabile di cambiamenti profondi che stavano maturando negli orientamenti del corpo elettorale e che, nel corso degli anni, avrebbero assunto progressivamente dimensioni sempre più consistenti e variegate. Segnale ampiamente sottovalutato o persino ignorato dalla maggioranza dei partiti tradizionali.
Eppure il voto del 14 giugno 1987, oltre a sancire il primo successo della Lega, pur ancora numericamente limitato, indicava chiaramente che 25 elettori su 100 avevano compiuto scelte significativamente diverse dal passato, “rifugiandosi” nel non-voto (14) o in nuove liste portatrici di interessi e/o visioni circoscritte (11). Pur trattandosi di fenomeni diversi, non assimilabili tra loro, rappresentavano comunque la manifestazione più evidente della frattura che si stava producendo a livello nazionale nel rapporto elettori–partiti. In termini assoluti stiamo parlando delle scelte di 11,5 milioni di elettori su un totale di 45,5 milioni di aventi diritto al voto. È vero che i tre partiti principali (Dc, Pci, Psi) contavano circa 30 milioni di voti, ma gli scricchiolii del 1987 si sarebbero trasformati, cinque anni più tardi, in un vero e proprio terremoto.
Parlavamo prima di un risultato numericamente limitato. Infatti nella Circoscrizione Como-Sondrio-Varese la Lega conquista il suo primo deputato con poco più di ottantamila voti (per l’esattezza 82.010 pari al 6,7%). Nelle altre due circoscrizioni in cui si era presentata ottiene a Bergamo-Brescia 51.862 (3,8%) e a Milano-Pavia 52.283 (1,6%). Al Senato invece il Collegio di Varese, in cui era candidato Umberto Bossi, scatta con 15.802 (7%). Il sistema proporzionale, allora vigente, oltre a garantire una rappresentatività politica e territoriale oggi impensabile, rendeva “visibili” le tendenze e gli orientamenti reali degli elettori.
Una curiosità. Quattro anni prima, alle politiche del 1983, la Lega Lombarda non era ancora nata e un certo Umberto Bossi, segretario della “Lega Autonomista Lombarda” (LAL), si candidò a quelle elezioni nella “Lista per Trieste” meglio conosciuta come “Il Melone” ottenendo nell’intera circoscrizione Como-Sondrio-Varese poco più di 150 preferenze.
Quei voti, infatti, al di là della consistenza numerica attribuita alle singole formazioni, davano corpo e sostanza al malessere che, particolarmente nel nord del Paese, andava assumendo dimensioni rilevanti per ragioni economiche prima ancora che politiche o culturali. Sono gli anni in cui il tessuto produttivo subisce profondi processi di trasformazione che mettono in discussione insieme alle vecchie certezze occupazionali anche gli equilibri sindacali e politici.
In questo contesto i movimenti “autonomisti” (prima della Lega erano comparsi la Liga Veneta, Piemont, Lista per Trieste e altri) guadagnano terreno progressivamente e parallelamente all’acuirsi della crisi economica e sociale. Per loro i colpevoli della crisi sono facilmente individuabili: lo Stato (riassunto nello slogan di Roma ladrona) e il Sud (la palla al piede). Il Nord rappresentato come “gallina dalle uova d’oro” (che altri gli rubano) deve e può far da solo. Ancora non erano arrivati gli albanesi, i cinesi o i musulmani!
Slogan semplici ed efficaci che fanno presa rapidamente anche perché stentano a decollare, anche negli altri partiti, letture un po’ più attente degli effetti prodotti da quell’inedito e gigantesco cambiamento che solo più tardi verrà chiamato “globalizzazione”.
Il voto di trenta anni fa segna comunque un passaggio epocale la cui portata non si è voluto o saputo cogliere in tempo. Oggi le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e, purtroppo, il dibattito sembra più orientato alla definizione degli equilibri politici che a dare risposte ad un malessere cresciuto in modo esponenziale e sul quale sono in molti a fare leva per calcoli esclusivamente elettorali. Eppure anche la vicenda della Lega potrebbe essere un utile esempio per ridefinire contenuti e modalità di una politica che appare sempre più distante dalle condizioni materiali e dai bisogni reali dei cittadini.
Sono trascorsi trent’anni da allora e al fondatore della Lega e al suo movimento è successo di tutto e di più: dalla sequenza incredibile di successi elettorali, alla assunzione di rilevanti ruoli di governo a livello locale, regionale e nazionali, alle inchieste giudiziarie e agli scandali che hanno determinato la progressiva emarginazione di Bossi. Fino alla umiliazione riservatagli dai militanti del suo stesso partito al Congresso del 21 maggio scorso a Parma. Ai lavori di quell’assise hanno partecipato oltre 500 delegati con il compito di ratificare il risultato delle primarie per la segreteria federale, che hanno incoronato Matteo Salvini con l’82,7% dei voti, contro lo sfidante, Gianni Fava, sostenuto da Bossi e Maroni. Bastava l’esito delle primarie per sancire la fine di un’epoca, ma i “duri e puri” di sempre, ora al seguito del leader con la felpa (di una formazione che, tra l’altro, assume tratti opposti alla Lega delle origini), non sono tipi da accontentarsi facilmente. La vittoria schiacciante sugli eroi d’un tempo non era sufficiente, occorreva un gesto che lasciasse il segno. Eccoli dunque, mentre Bossi tenta di parlare, esibirsi con fischi e urla fino all’invito esplicito del “Fuori, fuori” che, a quanto pare, nei partiti moderni è diventato molto di moda. Una bruciante umiliazione che Bossi non aveva mai provato neppure nella famosa “notte delle scope” di Bergamo (aprile 2012), quando Maroni subentrò al vecchio capo dimissionario dopo l’esplosione dello scandalo denominato “The family”.
Un epilogo drammatico di una storia lunga e complessa che andrebbe rivisitata con attenzione anche perché, a mio parere, riassume in sé la crisi di una politica che ha smarrito le sue ragioni fondamentali.
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