Mia moglie ed io ci siamo accorti presto che c’era qualcosa di inaspettato nel nostro essere nonni di frontiera.
Una sera (mattina in California), durante un collegamento FaceTime, nostra figlia ha puntato la videocamera del telefono verso il bambino, allora di pochi mesi, dicendo: ”Guardatemelo un po’ che io vado a fare una doccia veloce”. E sparisce.
Sicché noi, compresi nel nostro ruolo di nonni di frontiera alle prime armi, abbiamo iniziato a fissare lo schermo dell’iPad con grande concentrazione ed in rigoroso silenzio, perché dall’altra parte il pargolo, dopo una aspra battaglia con sua madre, aveva ceduto e si era finalmente addormentato.
L’impegno era che, nel caso avessimo notato qualcosa di strano, avremmo fatto uno squillo al telefono della ragazza la quale, nella improbabile ipotesi lo udisse da sotto la doccia, si sarebbe precipitata a rimediare alla situazione.
Ora, è vero che per i figli e i nipoti si fa questo ed altro, tuttavia ci siamo sentiti un po’ a disagio – per usare un eufemismo che non rende giustizia alla assurdità della situazione – nel fissare un neonato dormiente a quasi 10.000 km di distanza, come se lui fosse lì vicino e non una immagine elettronica.
Tempo dopo, ho scoperto che non eravamo i soli ad essere in questa condizione e che i nonni di frontiera acquisiscono proprietà fuori dalla norma.
Una amica italiana con bambini e nonna al seguito era venuta a trovare mia figlia durante un mio soggiorno in California.
Arrivato il primo pomeriggio, che corrisponde alla sera in Italia, la nonna in questione si è appartata e in video conferenza ha letto la storia della buona notte ai suoi nipoti italiani, tipo Favole al telefono di Gianni Rodari.
Questo è la prova provata e inconfutabile che i nonni di frontiera possiedono la proprietà commutativa: variando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia.
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