L’anticipo d’estate di questi giorni ci trascina un po’ tutti verso la prossima pausa, quando si lascerà la città dove si risiede tutto l’anno per andare a stare altrove, sia pure temporaneamente.
La mente affaticata dal superlavoro intellettuale e sollecitata dal multitasking sente il bisogno di una sosta dai pensieri quotidiani, reclama una vacanza che si rifaccia al significato originario del termine, dove si possa fare spazio al “vacuum”, il vuoto libero dove la mente, sgombra dalle preoccupazioni del quotidiano, possa dedicarsi a qualunque pensiero purché “gratuito”.
Già proiettata verso il tempo libero mi preparo all’esercizio linguistico che da un po’ desideravo mettere in atto, con un elenco di parole da portare nello spazio vuoto, breve o lungo che sia, reale o immaginario di cui sento un gran bisogno.
Nell’elenco ci metto quelle espressioni costituite spesso di una sola parola, che la nostra pur ricca lingua non possiede. Mi incuriosiscono le lingue che hanno coniato una sola parola dentro cui concentrano il senso di un pensiero complesso quando noi abbiamo necessità di un’intera frase.
Provo a socializzare le parole a cui rivolgerò l’attenzione nelle ore di noia della lunga estate.
Mi eserciterò nella sobremesa, termine spagnolo che indica il tempo trascorso dopo un pasto a chiacchierare con la persona con cui abbiamo mangiato.
Non so dove mi troverò nelle notti intorno alla festa di San Lorenzo, ma mi impegno a scoprire quella che i tedeschi chiamano Sternenglanz, la sensazione che pervade l’essere umano davanti allo splendore delle stelle.
Mi stupisce la precisione della lingua tedesca che ha scelto una parola, Waldeinsamkeit, per descrivere l’emozione di trovarsi da soli in mezzo agli alberi.
Dai giapponesi imparerò ad apprezzare “la luce del sole quando filtra attraverso i rami degli alberi”, la komorebi.
Affascina l’idea di immergersi nella natura mentre la mente è persa in altri pensieri: per i finlandesi è tempo di haaveilla, verbo che descrive l’atto del “sognare ad occhi aperti”.
Davanti al mare, la sera o la notte, mi dovrò ricordare una parola svedese, per fortuna facile da pronunciare nonostante le asprezze delle lingue scandinave, la “mångata”, per definire che cosa si prova quando si ammira il “riflesso della luna nel mare”.
Nelle ore del solleone capiterà di “camminare in punta di piedi sulla sabbia calda”, ripetendo l’azione che gli abitanti della Namibia chiamano “hanyauku”.
Per una volta potremo fare il sacrificio di svegliarci all’alba per metterci all’ascolto del ”canto degli uccelli prima della luce del giorno”: capiremo che cosa gli svedesi intendono per “gokotta”.
Ogni estate possiamo afferrare l’istante magico dello stupore davanti alla natura, quando percepiamo la sensazione di ”vivere un momento di grande bellezza”, per i giapponesi semplicemente ”aware”.
Nei mesi di calura faticherò a capire il peso che i norvegesi attribuiscono a ”utepils”, parola che ci racconta una sorta di ”felicità nel bere una birra all’aria aperta” nei giorni della breve estate del Nord.
Non ho più l’età per farlo ma lo suggerisco ad altri, l’esercizio per il quale gli islandesi hanno coniato un termine che mi sembra onomatopeico: Hoppìpolla, che va bene in un giorno di pioggia, quando, stivali ai piedi, si va a “saltare nelle pozzanghere”.
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