È doveroso annoverare Umberto Saba tra i più grandi poeti italiani. Del Novecento – morì nel 1957 all’età di 74 anni – e non solo.
Ma a ben vedere quegli ossimori, quei contrasti che molti critici gli hanno attribuito (poeta della socialità e della solitudine: dell’esclusione e della partecipazione…) forse valgono anche per qualificarne l’esistenza, la “prova umana”. Perché Umberto Saba non era un poeta italiano: di più, era triestino. E anche questa, forse, può essere una ragione di contrasto.
Umberto Saba alla nascita si chiamò Poli. Il nuovo cognome, che in ebraico significa pane o forse nonno o che forse richiama il suono Saber, il nome dell’amata nutrice, venne regolarizzato ufficialmente anche all’anagrafe nel 1928. Al triestino Saba, dunque, piaceva trovare riferimenti tra i maggiori della poesia e della letteratura italiana: Petrarca e Leopardi sopra tutti. E invece – ha rilevato bene Giacomo Debenedetti, critico e amico – “vi si trovano tracce di poeti che Saba si sarebbe offeso di sentirsi rinfacciare: per esempio il Tommaseo, anche per certe inflessioni e modi di pronunciare propri del veneto dell’altra sponda adriatica, vi si trova dell’Aleardi, dello Zanella, un po’ di scapigliatura, parecchio del Betteloni, parecchio anche del non amato Pascoli…”. E anche, si potrebbe aggiungere, vi si trovano agganci con lo spirito ilare e disincantato di un coevo, Guido Gozzano, che come Saba era nato nel 1883 (ma era morto nel 1916), e che Saba almeno agli inizi considerava un po’ sdegnosamente un “poeta per serve”.
C’è la realtà e c’è la tragedia (ma letta con disincanto… gozzaniano) in questi tre versi tratti dalla raccolta “Poesie scritte durante la guerra”: Milano 1917: “Per ogni via un soldato – un fante – zoppo / va poggiato pian piano al suo bastone / che nella mano libera ha un fagotto”. Si può fare un altro esempio. A proposito di invasioni di campo gozzaniane da parte di Umberto Saba. Prendiamo Torino, la città di Gozzano, appunto, cui l’autore piemontese dedica quattro strofe e un’ottantina di versi crepuscolari: “…I tigli neri, / le dritte vie corrusche di rotaie, / l’arguta grazie delle tue crestaie, / o città favorevole ai piaceri!…”. E via di questo passo: “… vedo al tramonto il cielo subalpino… / Da Palazzo Madama al Valentino / ardono l’Alpi tra le nubi accese…”. Ed ecco – per intero – la risposta di Saba, crepuscolare sì e no, di certo un’immagine forse un po’ parafrasata ma ben più quotidiana e concreta: “Ritornerò dentro la cerchia amabile / dei tuoi monti, alle vie che si prolungano / come squilli. Poi tosto in uno strano / silenzio fuggirò ritrovi, amici. / Ma cercherò il soldato Salamano, / il più duro a parole, il più al dovere / fermo, che in sé la tua virtù rispecchia. / Cercherò l’officina ov’egli invecchia.”
È possibile che Saba la rifiutasse, ma non si può non vedere una certa “crepuscolarità”, nel senso di abbandono della grande poesia della nostra storia e della nostra letteratura, anche in questo accenno descrittivo e ambientale paragonato, ancora per fare un esempio, a un altro poeta dell’epoca, Marino Moretti, crepuscolare sui generis. È l’attacco di una poesia famosissima morettiana: A Cesena: “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena…”. Ed ecco l’incipit di una poesia di Saba intitolata Latteria: “Entrano in una latteria a me cara / un uomo e una giovanetta. Al banco, / altra fanciulla dal viso più stanco / mesce e prepara…”.
Questo senso di quotidianità di “storia di vita”, di osservazione e di sensazioni a volte malinconiche e a volte no, che è tipico di tanti grandi poeti italiani della prima metà del Novecento, è forse un limite ma anche la grande forza di Umberto Saba. Era nato ebreo, figlio di madre ebrea – Felicita Rachele Coen – ma anche questa condizione, che pure ne condizionò lo stato e l’allora drammatico trascorrere del tempo tra le due guerre, non è stata il fulcro della sua poesia. La sua poesia era tutto il resto, la vita di ogni giorno, i pensieri, le gioie – poche –, le ansie, le visioni. E così le vicende “normali”: il servizio militare e la guerra, il matrimonio, le amicizie, la nascita della figlia, le malattie, il lavoro.
La sua raccolta – il Canzoniere –, diceva Umberto Saba, è un libro “facile e difficile”. Come facile e difficile – ritorna qui il poeta dei contrasti – è la vita di ogni uomo. Di questa quotidiana normalità, di questo viatico che Saba promette a sé stesso e che offre agli altri ecco un ultimo esempio. La poesia, non notissima, si intitola Congedo: “ Della pace agli annunci benedetti / si vedon fuor della trincea gli elmetti / uscir – quanti! – dal suolo; / volare nelle retrovie i berretti: / e meco in guerra rimaner io solo”.
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