«Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? È stato sempre così? Sarà sempre così? Chiudevo gli occhi ma camminavo.»
Mario Rigoni Stern apparteneva a quella generazione che ha attraversato il fascismo. Era nato il 1° novembre del 1921 ad Asiago, nelle Prealpi venete, in provincia di Vicenza. Il 1° dicembre del 1938 si recò ad Aosta, per frequentare la Scuola militare centrale d’Alpinismo. L’anno successivo fu nominato soldato scelto e sciatore-rocciatore specializzato. Era pronto per la guerra che sarebbe stata annunciata da Mussolini il 10 giugno del 1940.
Il soldato scelto Mario Rigoni Stern fu mandato a combattere contro i francesi e poi contro i greci e poi contro i russi. Non sempre i libri di scuola ricordano il lungo elenco di Stati ai quali l’Italia dichiarò guerra o che invase senza alcuna dichiarazione formale tra il 1935 ed il 1941: Etiopia, Spagna, Albania, Gran Bretagna, Francia, Grecia, Jugoslavia, Unione Sovietica, Stati Uniti (la guerra alla Gran Bretagna coinvolse anche i suoi Dominions: Canada, Sudafrica, India, Australia, Nuova Zelanda).
Mario Rigoni Stern partì da Aosta per la Russia il 14 gennaio del 1942 (in settembre fu decorato “sul campo” con la medaglia d’argento al Valor militare). Il 17 dicembre ricevette l’ordine di lasciare la sua posizione sul Don e di iniziare il ripiegamento. Riuscì a portare in salvo i suoi settanta alpini e, dopo aver attraversato l’Ucraina ed essere arrivato in Bielorussia, riuscì a ritornare in Italia. Dopo l’8 settembre del 1943, fu catturato dai tedeschi e rinchiuso prima ad Innsbruck e poi nel lager 1B in Massuria, in quella che allora era la Prussia Orientale.
È in questa circostanza che iniziò a scrivere un diario, da cui scaturirà Il sergente nella neve, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1953, nella collana dei «Gettoni» diretta da Elio Vittorini, e accompagnato dal sottotitolo Ricordi della ritirata di Russia. Vittorini dichiarò che il libro di Rigoni Stern era «la cosa più viva che [avesse] letto sulla guerra».
Fu lo stesso Autore a ricordare, in una edizione scolastica del suo romanzo pubblicata nel 1965, come fosse nato il Sergente:
«Nell’inverno del 1944 ero prigioniero dei tedeschi in un paese verso il mar Baltico. Nevicava fitto, nevicava sempre. Io guardavo attraverso le piccole finestre della baracca ricordando la mia felice libertà nel paese lontano. E nel silenzio, di tra il nevischio, mi trovai a ricordare compagni che la guerra aveva portato via. Improvvisamente mi tornarono veri, come stessi rivivendoli, i fatti che mi erano capitati l’anno prima. Talmente vivi da provare paura, serenità, coraggio, allegria, apprensione come essere nella realtà; forse di più.
Presi allora un mozzicone di matita che conservavo nello zaino per quella mania che avevo di scrivere il mio diario, e su pezzi di carta racimolati in fretta incominciai a scrivere: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato…”.
[…] Perché l’ho fatto? Non certo con la presunzione che il mio scritto venisse stampato e letto. Mi sembrò necessario, allora, e urgente, dovermi liberare da qualcosa che avevo dentro, e realizzare tutto in parole con vocali e consonanti. Fissare quello che avevo visto per poterlo sempre ricordare. Non era un diario personale: dovevo dire quello che era accaduto a migliaia di uomini come me in quel dato periodo della guerra. Senza la strategia e la tattica, le scienze della guerra: narrare solamente una condizione umana. Tutto qui.»
A differenza della prima versione diaristica, nel romanzo non sono molti né molto precisi i riferimenti temporali. Solo un episodio è inquadrato non estrema precisione cronologica: «Viene il 26 gennaio 1943, questo giorno di cui si è già tanto parlato. […] Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei più cari amici mi hanno lasciato in quel giorno.»
Si tratta della battaglia di Nikolajewka: uno degli scontri più importanti del drammatico ripiegamento delle forze dell’Asse nel fronte orientale. Le forze italo-tedesche, provate, oltre che dai combattimenti, dal gelido inverno russo, si ritrovarono ad affrontare alcuni reparti dell’Armata Rossa, asserragliatisi nel villaggio di Nikolajewka per impedire all’Armir e alla Wermacht la fuga dalla grande sacca del Don.
Tutto quello che si legge in questo libro, i nomi, le persone, i fatti, i luoghi, è vero, come dichiarò lo stesso Autore. Come in Se questo è un uomo di Primo Levi. Nella vita dei due scrittori l’esperienza della guerra non sarebbe mai stata rimossa. All’uscita del Sergente della neve, Primo Levi dichiarò che avrebbe voluto trascorrere il Natale in un rifugio isolato tra le montagne con quello scrittore ancora sconosciuto. Nacque poi una profonda amicizia tra i due. In un racconto di uno dei suoi ultimi libri, Aspettando l’alba, del 2004, Mario Rigoni Stern si rivolse proprio all’amico Primo Levi: «Quante volte, Primo, in questi ultimi anni ti dicevo: “Vieni, andremo per i boschi dove non incontreremo gente estranea; cammineremo sul muschio tra il verde cupo come sul fondo del mare; oppure con gli sci tra il silenzio luminoso, e questo ti farà dimenticare l’angoscia di Auschwitz».
C’è una pagina del Sergente della neve che mi è sempre rimasta impressa e su cui sono spesso tornato. Quella in cui Rigoni Stern descrive il momento del risveglio nella casa dei contadini russi in cui ha trovato ospitalità per una notte:
«Quando sono pronto per uscire la donna mi porge una tazza di latte caldo. Latte come quello che si beve nelle malghe all’estate; o che si mangia con la polenta nelle sere di gennaio. Non gallette e scatolette, non brodo gelato, non pagnotte ghiacciate, non vino vetroso per il freddo. Latte. E questa non è più naia in Russia, ma vacche odorose di latte, pascoli in fiore tra boschi d’abete, cucine calde nelle sere di gennaio quando le donne fanno la calza e i vecchi fumano la pipa e raccontano. La tazza di latte fuma nelle mie mani, il vapore sale per il naso e va nel sangue. Bevo.»
In questo gesto semplice, quotidiano, il “nemico” si disvela semplicemente uomo. In quella tazza di latte caldo il sergente ritrova le sue montagne e riconosce simili a sé i contadini verso cui l’Italia aveva mosso una guerra.
Che ne fu dei personaggi del romanzo? Fu sempre Rigoni Stern ad informarci della loro sorte:
«Il sergente dei mitraglieri sono io, che ora faccio l’impiegato e vivo in pace al mio paese. L’alpino Tourn, il piemontese, è morto l’anno scorso: faceva il minatore, ha preso la silicosi, quella polvere che brucia i polmoni; i suoi compagni di lavoro lo hanno portato in spalla al cimitero e sulla sua tomba hanno fatto scrivere parole semplici a ricordo della sua allegria e della sua bontà. Il tenente Cenci è diventato un bravo professore di chirurgia e studia e lavora per la salute degli uomini: ha due figlie e si ritrova sovente con i suoi alpini. Il caporalmaggiore Antonelli, promosso sergente per merito di guerra, aggiusta ora le locomotive delle Ferrovie dello Stato. Il tenente Moscioni ha fatto il comandante partigiano: ora è medico e anche lui ha scritto un libro sulla guerra di Russia. Il sergente Baroni è fattorino in una banca. Marco Delle Nogare è emigrato in Australia e fa l’allevatore di bestiame. Renzo è in Canada a lavorare da falegname. Adriano è maestro al suo paese.
Questi i risultati della pace e della libertà: lavorare e costruire per il bene degli uomini, di tutti gli uomini; non uccidere, distruggere e conquistare con la forza delle armi, ma vivere con il lavoro per la fratellanza e l’aiuto reciproco.»
Tra un po’ sarà il 2 giugno, giorno in cui, tra le altre cose, l’Italia festeggia le sue Forze armate, con tanto di parata militare. A me, quella parata, non è mai piaciuta.
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