Africàn, Baluba, Bingo-Bongo, Sveglia-al-collo, Orangotango… La fantasia lessicale del senatùr Umberto Bossi e di suoi accoliti, fino a qualche tempo fa, cioè fino a quando guai personali e famigliari non vennero a distoglierne l’attenzione, si sbizzarriva nel coniare insulti, epiteti e definizioni per gli immigrati e gli stranieri in genere, presenti sul suolo patrio, per lui la Padania. Tutti africani, o quasi, secondo il Bossi, compresi i cinesi, gli indiani o i fuggiaschi dal Medioriente in fiamme.
Era il suo un intercalare “politico” bizzarro e qualunquista, ma non privo di una certa efficacia e di una certa presa, giacché parlava alle pance (piene) invece che alle teste. Oggi, Matteo Salvini, che ne occupa il posto di segretario federale o generale, ha un po’ modificato programmi e toni. E ha anche lasciato le ruspe – con le quali avrebbe dovuto spianare gli accampamenti dei Rom – ferme nei garage. La Lega ha fatto una svolta e ha pure guadagnicchiato qualcosa in termini di consensi, dice Salvini, nelle intenzioni di voto espresse dai sondaggi, nonostante all’opposizione dura sia sempre sopravanzata da Grillo e dai suoi.
Ma i problemi che a suo tempo avevano portato Umberto Bossi a scagliarsi contro gli “africani”, che si sarebbero dovuti aiutare a casa loro – per altro senza mai dire come –, restano. Restano nel senso che quello dell’immigrazione è un tema, per i leghisti e non solo, vivo e attuale. E l’insulto colorito è stato soppiantato da una politica di “controimmigrazione”, di muri, di integrazioni respinte, che spesso trova appigli anche in dinamiche politiche europee.
È sempre stato così? Oppure è il risultato di un evento epocale, magari foraggiato da interessi occulti di finti volontari, foriero soltanto di guai? Le parole di papa Francesco: “Nessuno è clandestino se vive in questo mondo” dovrebbero indurre almeno a qualche riflessione, senza entrare nei meccanismi sociali e senza ipotizzare foschi scenari. Potrebbe essere, per intanto, anche una questione di sensibilità.
A noi varesini e… varesotti la storia dovrebbe dare delle indicazioni, pensando che la nostra “cristianizzazione”, che cominciò grosso modo due o tre secoli dopo la nascita di Gesù, avvenne per merito di santi e martiri di origine africana, appunto, tuttora qui molto amati. A cominciare da quel san Vittore – patrono della città, venerato anche nella chiesa di Casbeno – di cui meno di due settimane fa è stata solennemente celebrata la festività. E anche ricordato nella pieve di Arcisate, e dall’altra parte del lago: a Intra e a Cannobio. È noto che Vittore, soldato delle legioni romane dell’impero, che non aveva voluto abiurare la propria fede cristiana (siamo ai tempi dell’imperatore Massimiano, terzo secolo), provenisse dalla Mauritania. E perciò era un nero. Un africano “vero”. I milanesi gli vollero dedicare anche le loro carceri, nominandolo patrono dei prigionieri e degli esuli. E con lui altri due martiri africani ricordati soprattutto nel capoluogo lombardo: Nabore e Felice.
E santa Caterina? Alla quale la provincia di Varese ha destinato da secoli uno dei suoi santuari più suggestivi collocato sulla sponda lombarda del Lago Maggiore? Era di Alessandria, in Egitto. Come sant’Antonio abate. Il “santo col porcellino” protettore degli animali, attorno al quale – e alla sua chiesa – la città si ritrova ogni anno il 17 di gennaio e, la sera precedente, facendo corona a un falò da cui si cerca di trarre i migliori auspici per l’anno a venire. Anche sant’Antonio, dunque, era un africano.
Se a costoro i varesini (di origine celtica? chi lo sa…) di sette, otto secoli fa avessero riservato lo stesso trattamento auspicato da qualche leader politico attuale, che oggi vorrebbe reimbarcare subito gli africani, aiutandoli come si diceva a casa loro, probabilmente non esisterebbe nemmeno la “varesinità”, così come la intendiamo noi. E magari, qualcuno ha già cercato di insegnarcelo, adoreremmo le divinità dei boschi e dei fiumi.
Qui si sta parlando invece di persone e di idee, e di santi giusti. A ben vedere la nostra terra è sempre stata una terra molto ospitale e generosa. È vero che i tempi non sono paragonabili. Ma un piccolo, piccolissimo insegnamento queste storie così lontane nel tempo ce lo dovrebbero dare.
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