Più o meno due volte all’anno volo in California.
Lì vivono mia figlia, suo marito e i loro due figli.
9.568 Km di distanza. 9 ore in meno di fuso orario. 16 ore di viaggio.
Vado perché sono un nonno di frontiera.
Se posso, quando vado a trovare mia figlia non dico mai che vado a San Francisco. La cosa mi mette in imbarazzo.
Quando, per qualche ragione, devo dire che vado tre o quattro settimane in California, i miei interlocutori mi guardano con invidia. Nella loro mente si disegnano in rapida successione: la spiaggia di Malibu, atletici surfisti abbronzati, il Generale Sherman e il profilo di El Capitan, la scritta HOLLYWOOD sulle colline di Los Angeles, il Golden Gate tra la nebbia, Arnold Schwarzenegger, Steve Jobs e, nell’immaginario dei più estremi, il Burning Man. Colonna sonora: Hotel California – dove sei sempre ben accolto, ma dal quale non puoi mai andartene via – con quell’assolo di chitarre alla fine che lo risentiresti mille volte.
Io, in realtà, vado a fare il nonno di frontiera. Che è un lavoro. Bello, ma pur sempre un lavoro. Specializzato. Per il quale non esistono scuole. Uno ci si trova.
Learning by doing, si direbbe da quelle parti.
Qui si direbbe: ci si arrabatta. Espressione sicuramente meno nobile, ma che rende di più l’idea.
Quindi: pannolini, lavatrici, pignatte da lavare, casa da riordinare, erba da tagliare; ma anche: bimbi da cullare, storie da raccontare, giochi da fare, parchetti, scivoli, altalene; e poi: supermercati, asili, visite pediatriche. E ancora: idraulici, carpentieri, camion della spazzatura e quelli rossi dei pompieri. Auto della polizia nascoste dietro i cespugli. Sceriffi con la stella come nei film. Vicini di casa. Anche questi come nei film. Uguale uguale.
Insomma, una vita normale, ma in California.
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