Per dirla in una parola, i cristiani sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo: anche i cristiani lo sono nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo: anche i cristiani si sa che sono nel mondo, ma non provengono dal mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile: anche i cristiani si sa che sono nel mondo, ma la loro pietà rimane invisibile.” Mi sono ricercato queste espressioni della lettera a Diogneto – scritta circa 150 anni dopo la morte di Cristo – nella bella traduzione di Michele Pellegrino, dopo aver letto quella che le parrocchie della città e le associazioni e i movimenti ecclesiali del decanato hanno inviato alla città di Varese.
La lettera dei nostri giorni ricalca l’impegno dei cristiani dei primi secoli per contribuire a costruire una città che tale è non solo perché circondata da palazzi e case, attraversata da strade, ricca di commerci, ma anche perchè densa di memorie che trascendono le ultime generazioni e di desiderio di custodire un modo singolare di vivere e di morire. E’ un impegno a dialogare con tutti, credenti e non credenti, atei o agnostici per riflettere assieme sulla situazione delle donne e degli uomini che vivono a Varese, è l’offerta di un servizio, di un aiuto là dove c’è bisogno, una richiesta di collaborazione con la società civile per affrontare le sfide del nostro tempo senza nulla chiedere in ricompensa.
Varese, infatti, non è soltanto lo spaccato di un attimo fuggente, la fotografia degli uomini che ora ci vivono. Essa è la traccia più profonda ed incisiva di coloro che “non ci sono più”, ma che con il loro messaggio, il loro insegnamento, le loro opere hanno orientato e fecondato il presente che noi viviamo.
Anche i cristiani vivono nella città, nella compagnia degli uomini; pur conoscendo le difficoltà della nostra società “contrassegnata dalla complessità, dalla frammentarietà…dall’individualismo” credono che ci sia spazio per la solidarietà; mostrano una visione positiva della città e una simpatia per la sua storia; sanno di essere minoranza e nel contempo sono consapevoli di poter offrire contributi specifici. Essi vivono in una società che in troppe manifestazioni disconoscono i valori evangelici, ma è in questa realtà che desiderano essere “lievito” e “sale”, è in questa storia con la quale devono fare i conti.
La lettera potrebbe segnare l’inizio di un dialogo con tutti coloro che amano Varese, città carica di una bella storia scritta con gesti significativi e, talvolta, con sacrifici da coloro che hanno amato – forse più di noi – questa città.
Con il mondo del lavoro e dei bisogni concreti, i cristiani potrebbero condividere esperienze e modalità per superare le differenze e le disuguaglianze sociali. Nell’affrontare la sfida educativa, che non spetta solo alle famiglie e alla scuola, ma a tutta la comunità, i cristiani possono indicare, soprattutto ai giovani, la strada della cortese urbanità e della irrepetibilità tra l’ascolto di un’esecuzione musicale perfetta e una partita partecipata allo stadio. Agli adulti possono chiedere di lavorare assieme per costruire una città dove i rapporti umani siano improntati ad un’autentica amicizia e a buoni rapporti all’interno delle famiglie, dei luoghi di lavoro e di aggregazione per estenderli al condominio, al vicinato, al quartiere. Agli anziani domandano di non rassegnarsi di elargire la loro saggezza ai giovani e di non affrontare il tempo, la memoria come un peso o un’incombenza, ma come una stagione da vivere in tutta la sua compiutezza.
La lettera chiede di accogliere “l’altro”, cioè il diverso, che non è solo il migrante che chiede ospitalità, ma anche il malato psichico, l’ex-detenuto, il tossicodipendente, l’uomo o la donna che ha visto naufragare il legame coniugale, l’anziano solo, il malato cronico “creando strutture” adatte a loro e a cui generosi volontari danno già un contributo non indifferente.
L’arrivo di uomini e donne che fuggono dalla guerra e dalla fame ha creato in molti una psicosi di reciproco terrore, ha alzato un muro di diffidenza: solo la comprensione – accompagnata dalla punizione per chi compie reati, così come per ogni cittadino soggetto alla legge –, cioè il desiderio di prendere con sé la cultura di un’altra persona, può arricchire la città, la propria cultura. Solo la volontà di ragionare assieme con l’altro può portare al dialogo e appianare pericolose trincee.
E’ vero. Anche a Varese – ce lo ricorda la lettera dei cristiani varesini – c’è la tendenza a far emergere il soggetto, l’individuo che si percepisce come autoreferenziale e che tende a sentire i suoi desideri come “diritti”. Si riscontra ciò anche nella vita delle numerosissime associazioni, gruppi culturali o sportivi, centri di studio, movimenti che prosperano a dovizia nella città, ma le cui attività si sovrappongono perché non lavorano “in rete” e il cui primato consiste non nell’aggregare, ma nel perseguire in modo narcisistico il proprio desiderio. Questa disgregazione non permette certamente alla città di avere un orizzonte comune perché non percepisce l’altro in vista di un bene comunitario. L’individualismo indifferente e l’edonismo egoista tendono a frammentare ancora di più la città ponendo a chi amministra e a tutta la società congiunture ignote.
In questo tempo, ci sembra che il primo compito dei cristiani sia quello di testimoniare che vivere “con” e non solo “accanto” agli altri sia possibile, che le coscienze possono rinascere e rinnovarsi e non tirarsi indietro di fronte a responsabilità civiche, senza porsi su un rischioso candelabro.
Lavorare tutti assieme per costruire una città amica: ecco lo scopo principale della lettera. Occorrerà incontrarsi non tanto per fare una diagnosi che non basta a curare le malattie quanto per prospettare speranza, stimolando ognuno il proprio impegno nelle imprese comuni, in modo che tutta la città si senta partecipe di una storia in un clima di vera libertà.
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