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Storia

COSÌ UCCIDEMMO CARLETTO FERRARI

FRANCO GIANNANTONI - 24/02/2012

Carletto Ferrari

Erano le 14 del 25 aprile 1945. L’insurrezione stava spegnendosi negli ultimi spari. Solo uno sparuto drappello di brigatisti neri della “Compagnia Arezzo” al comando di Renato Zambon stava ancora combattendo la disperata battaglia dell’onore in preda a un furore che non trovava fine, dal primo piano delle Scuole Elementari di via Felicita Morandi dove aveva trovato sede da qualche mese.

Poco lontano, in via Silvestro Sanvito, all’altezza della gigantesca magnolia del parco Baroggi, un gruppo di prigionieri, formato da una cinquantina di militi dell’Ufficio Politico della Guardia Nazionale Repubblicana, “l’antenna del regime”, stava marciando in direzione delle carceri dei Miogni sotto il controllo dei partigiani della 121a brigata Garibaldi “Walter Marcobi”. In gran parte erano giovani, segnati dalle imprese terroristiche dei seicento giorni di Salò.

Il gruppo si era mosso pochi minuti prima da Villa Triste, la residenza sequestrata agli industriali Dansi, in via Dante 2, dove i partigiani e gli antifascisti, catturati dalle bande repubblichine, venivano sottoposti a brutali trattamenti con le sferzate del “gatto dalle sette code” un arnese con prolunghe metalliche che piagavano il corpo e a vere e proprie torture sul terribile letto di contenzione attraversato dai fili elettrici.

Ai lati della teoria repubblichina c’era, imponente nella divisa mimetica avuta dagli Alleati, “Claudio” Macchi, il fraterno compagno di Walter Marcobi caduto il 5 ottobre 1944 fra Capolago e le alture che dal lago conducono ad Azzate.

All’improvviso dal gruppo dei prigionieri si era sfilato un ragazzo poco più che ventenne, Filippo Conti. Non voleva fuggire ma parlare proprio con il capo partigiano. Il colloquio breve ma drammatico di cui “Claudio” Macchi mi diede testimonianza personale il 15 gennaio 1985 in una analisi storiografica sulla Resistenza varesina, aveva avuto come tema la uccisione proditoria del partigiano varesino Carletto Ferrari avvenuta l’11 gennaio 1945 a pochi metri dai Miogni dove per ordine del responsabile dell’UPI-GNR il capitano Giovanni Battista Triulzi, uno dei peggiori criminali della RSI in provincia di Varese, doveva essere trattenuto.

La storia da questo momento è inedita. Filippo Conti, probabilmente nel tentativo di aver salva la vita, aveva confessato a Macchi d’aver partecipato all’assassinio di Carletto Ferrari, trentadue anni, ex tenente degli alpini, figlio di una famiglia dell’alta borghesia livornese, imparentata con la nobildonna Ernesta Scavini Carantani Speroni, moglie dell’ingegner Camillo Lucchina, “San’Antonio”, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Varese.

Conti lo aveva messo per iscritto su un foglio d’appunti facendo i nomi dei correi, i militi Innocente Cappelletti e Cataldo Mignona, anch’essi appartenenti all’UPI-GNR. Ma era andato molto più in là rivelando il nome del mandante, il capitano Triulzi, il superiore diretto che, presago della fine che si stava avvicinando, aveva abbandonato la città da qualche giorno per rifugiarsi a Busto Arsizio prima e in un istituto religioso del Piemonte poi, riuscendo a salvare la pelle. Per lui la Corte d’Assise avrebbe pronunciato la condanna capitale mai eseguita.

Il biglietto diceva: “Noi sottoscritti Filippo Conti, Innocente Cappelletti e Cataldo Mignona dichiariamo che, dopo aver avuto l’ordine dal capitano Triulzi di ammazzare Carletto Ferrari, abbiamo eseguito l’ordine, sparando una raffica di mitra per ciascuno al petto di Carletto Ferrari”.

Carletto Ferrari, già condannato l’11 marzo 1944 in contumacia dal Tribunale Straordinario Provinciale a nove anni di reclusione “per aver distrutto con altri il 26 luglio 1943 il Gruppo Rionale “Mussolini” di Varese”, era diventato per i fascisti un’ambitissima preda. L’11 giugno 1944 la caccia si era fatta spietata. In uno scontro a fuoco con un reparto dell’UPI-GNR che aveva circondato la casa padronale di Bizzozero per catturarlo, era rimasto sul terreno il vice brigadiere Giuseppe Silvino. Ferrari in un primo momento era stato fermato ma poi era riuscito a fuggire mentre i militi della GNR stavano cercando in casa delle armi. Accusato del delitto, Ferrari aveva dovuto cambiare aria per non cadere nelle mani del nemico dirigendosi verso il Comasco dove, del tutto sconosciuto, avrebbe potuto godere di una certa sicurezza.

Ma il temperamento era rimasto quello di un uomo d’azione, irrefrenabile, impetuoso. Con il nome di battaglia di “Giacomino” aveva fatto un po’ di contrabbando lungo il confine italo-svizzero per poter sopravvivere, poi, passo dopo passo, aveva preso contatto nell’énclave italiana di Campione d’Italia (dalla fine di gennaio del ’44 “strappata” da patrioti locali finanziati dall’OSS statunitense di Lugano alla RSI diventando il solo territorio del governo di Badoglio nel Nord Italia) con il gruppo partigiano di Villa Mimosa, legato alla Resistenza filo-alleata della Val d’Intelvi.

“Giacomino”, spavaldo, generoso, fin troppo audace, più volte aveva voluto irridere i fascisti andando sino a Como per passare qualche ora di serenità nella piscina comunale di via Sinigallia. Gli era andata sempre bene sino a quando per le vie di Como non fu riconosciuto, seguito, arrestato e consegnato all’UPI-GNR di Varese. Era il 10 gennaio 1945.

Dopo una sosta a Villa Triste interrogato dal comandante Triulzi e dal capitano Osvaldo Pieroni, responsabile dell’Ufficio Informativo, che in precedenza si era interessato a fondo di Ferrari con decine di “segnalazioni” trasmesse agli altri Comandi (“Ferrari si reca a Varese a trovare la famiglia due, tre volte la settimana, da Varese prende il primo o il secondo treno per Saronno (…) porta abitualmente gli occhiali nei e la pipa, ha baffetti rossicci”), era stato affidato ai suoi assassini. Da via Dante a piedi il gruppetto si era diretto in via Hermada, poi aveva imboccato via Morandi. Qui gli spari. Il petto di Ferrari era apparso all’infermiere della Croce Rossa Porfilio Corbini, il primo a vederlo, bruciacchiato dalle pallottole, segno dell’atto proditorio compiuto a bruciapelo che non poteva mascherare la insostenibile giustificazione del “tentativo di fuga”, un classico fascista, aggravato dal fatto che Varese era in quelle ore sepolta dalla neve e che nessuno, neppure l’atletico Ferrari, avrebbe potuto abbozzare.

“Cronaca Prealpina” diretta dal “mistico” Angelo Luigi Arrigoni il 17 gennaio aveva dato notizia del delitto. “La sera dell’11 gennaio – la breve comunicazione – mentre alle 19,45 in località Brunella, una pattuglia di militi stava accompagnando alle nostre carceri giudiziarie il capobanda Carletto Ferrari, il suddetto tentava di fuggire, gettando a terra il capo della pattuglia che lo scortava. Poiché all’alt egli proseguiva la fuga, i militi aprivano il fuoco, uccidendolo all’istante”.

Una menzogna che Filippo Conti, uno dei tre assassini con Cataldo Mignona e Innocente Cappelletti, aveva smentito.

Tre giorni dopo nel primo pomeriggio del 28 aprile, il fuoco partigiano poneva fine alla loro vita con quella di altri gerarchi, fra cui la spia dell’OVRA il varesino Giovanni Bazzi, in frazione Loreto nel punto esatto dove mesi prima era stato ritrovato il corpo senza vita di Walter Marcobi.

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