Don Milani non avrebbe bisogno di essere difeso da me, tanto è stata chiara e luminosa la sua esperienza sia di religioso sia di educatore. Sono intervenute, per farlo, persone di cultura e giornalisti di chiara fama, indignati dalle striscianti allusioni contenute nelle due righe di dedica a don Milani, contenute nell’ultimo romanzo di Walter Siti. È vero che uno scrittore scrive ciò che vuole, e gli altri, i lettori, sono liberi di leggerlo o meno, di condividere le sue parole o di respingerle.
Però, colpita dalle parole insinuanti di Siti, voglio formulare il mio personale elogio all’uomo e all’educatore.
Don Milani è stato il mio faro pedagogico, il mio maestro, molto più di filosofi e pedagogisti che ho studiato, per obbligo o per scelta. Superfluo, forse, aggiungere che il mio è il punto di vista di un’educatrice per vocazione e “per sempre”.
Non mi addentro nel suo rapporto con la Chiesa, mi aspetto che lo facciano altri, più esperti e più attenti di me al difficile tema del rapporto tra la gerarchia ecclesiastica e un suo sacerdote.
Ma non ho dubbi sull’attualità del suo pensiero pedagogico nel nostro paese, ancora alla faticosa ricerca di soluzioni per l’innalzamento del livello di istruzione generale.
Quando leggo che occupiamo posti di coda nelle graduatorie internazionali e che nel sud Italia le percentuali dell’evasione scolastica restano elevate, mi viene da dire che, quand’anche ricorriamo a termini inglesi che suonano più soft, come “drop out”, in fondo stiamo sempre parlando dei ragazzi espulsi dal sistema scolastico, quelli che don Lorenzo difendeva nel famoso libro di denuncia “Lettera a una professoressa”.
Cinquant’anni dopo, di questo educatore resta intatta la capacità di analisi, la lucidità del pensiero, il rigore logico, l’onestà personale e intellettuale, la religiosità spigolosa ma sempre appassionata.
Che cosa mi convince, da sempre, di don Lorenzo?
Per prima cosa, la sua idea di politica come servizio: “Il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne tutti insieme è la politica, uscirne da soli è l’avarizia”.
Il suo fare politico si è tradotto in un impegno individuale, sistematico e appassionato; ha costretto la scuola pubblica a prendere coscienza del rischio di perdere i più fragili diventando un ospedale “al rovescio”, come avrebbe detto scherzosamente Gianni Rodari, scrittore per l’infanzia: una scuola che perde i più fragili non è più un luogo educativo ma assomiglia sempre più a un ospedale “che cura i sani e respinge i malati”.
Lo scandalo di don Milani, cinquant’anni fa, consisteva nella scelta di stare dalla parte dei più umili, nel praticare un metodo di insegnamento più attento alla formazione di una coscienza critica che alle competenze, nel sognare e perseguire una scuola inclusiva. Una strada poco percorsa dalla pedagogia ufficiale.
Vissuto per metà sotto il fascismo e per metà nell’Italia divisa tra democristiani e comunisti, era un giovane rampollo dell’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, con radicate posizioni liberali e con tradizioni culturali consolidate nel tempo, che, con le sue scelte, aveva tradito la propria classe.
Aborriva l’autoritarismo in ogni sua forma, coltivava la letteratura, la poesia e la pittura e le diverse forme d’arte. Da ebreo non praticante scoprì il cristianesimo. Disse, in uno scritto, di aver fatto “indigestione di Cristo”. Amico di persone profondamente diverse da lui, scrisse a Oreste Del Buono: “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?”
Quando venne esiliato come parroco nella sperduta Barbiana lavorò senza sosta per aprire un varco nella cultura ai figli del proletariato contadino, scegliendo di offrire loro gli stessi privilegi della grande borghesia: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero, la frequentazione della piscina.
A Barbiana non c’erano aule, ma stanze: non c’erano né banchi né cattedra, né luce né lavagna. Si faceva lezione dalle 8 alle 7 di sera, per 365 giorni all’anno. I suoi ragazzi avevano costruito anche una piscina per imparare a nuotare. Su quei monti non arrivava neppure una vera strada: fecero pure quella.
Un impegno duro che però i ragazzi accettavano volentieri perché veniva offerta loro una scuola di vita: si leggeva il giornale, si parlava di attualità, si imparavano le lingue, si viaggiava, si studiavano la realtà e il mondo perché, come affermava don Lorenzo, solo la conoscenza rende liberi. E poi, “si impara più da un esempio che dalle parole”.
Dopo la sua morte, avvenuta nell’estate del 1967, il movimento del Sessantotto farà di lui l’icona di un nuovo modo di insegnare, si approprierà delle sue metodologie trasferendole in un mondo, quello della politica della sinistra militante, che a don Milani era completamente estraneo.
Riconoscere oggi il valore di don Milani significa ricordare l’esistenza di un diritto all’istruzione per tutti.
Cito ancora: “Quando avete buttato nel mondo d’oggi un ragazzo senza istruzione, avete buttato in cielo un passerotto senza ali”.
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