Noi varesini e varesotti viviamo in una terra di confine e nel tempo abbiamo assimilato il concetto di confine come parte del quotidiano. Non ci è mai pesato troppo, in passato, dover mostrare un documento di identità per raggiungere il Ticino; dopo Schengen abbiamo interiorizzato il momento del passaggio dalla dogana come un semplice rallentamento, il tempo di porgere un saluto cortese prima al finanziere italiano e poi al doganiere svizzero. Il confine tra noi e la Svizzera non ha mai costituito veramente una frontiera.
Il tema è stato ripreso da un gruppo di classi delle superiori alla Scuola Europea. Guidato dal proprio insegnante ha lavorato a una riflessione sui confini che oggi costituiscono una barriera ai migranti approdati sulle nostre coste, fenomeno di cui tutti riconosciamo le problematiche. Ma non è mancato alla scuola neppure un excursus storico che mostra come il concetto di confine sia mutato nel tempo, nello spazio e nell’immaginario personale e sociale.
Il lavoro didattico si è concluso con uno spettacolo teatrale, seguito da una tavola rotonda a cui sono stati invitati i rappresentanti di alcune associazioni conosciute per il loro attivismo nel campo dei diritti.
Gli invitati osservano la platea di ragazzi di diverse nazionalità, che i confini li hanno valicati tante volte, in una direzione e nell’altra, dato che la scuola in questione accoglie studenti provenienti da diversi paesi europei. Gli utenti di questa scuola si muovono da un paese all’altro accorgendosi a malapena di aver superato una frontiera, forti della conoscenza delle lingue, abituati a convivere con amici e compagni portatori di storie e di provenienze diverse, anche se poco consapevoli dei percorsi politico- culturali dei nonni e dei padri che hanno fatto l’Europa.
Il professore che ha guidato la ricerca sul significato del confine ha proposto come atto conclusivo una storia di contrabbando, vera, avvenuta lungo il fiume Tresa, corso d’acqua breve e torrentizio dell’alto Varesotto, con le sponde che segnano due diversi confini di stato.
La vicenda mette in scena contrabbandieri dal volto umano: niente a che vedere con gli odierni esportatori di valuta, o di droga, o con i trafficanti di vite umane. Il racconto induce gli spettatori più anziani a sospirare sui bei tempi in cui il traffico tra le due sponde riguardava “solo” le sigarette, le famose “bionde”. E i contrabbandieri erano, in fondo, persone che pur contravvenendo alla legge si comportavano da uomini d’onore, rispettati dagli abitanti dei paesini di confine. L’attore – regista affronta l’eterno tema delle guardie e dei ladri, qui mutato nella lotta tra “finanziere e contrabbandiere”.
Al termine dello spettacolo si è aperta la tavola rotonda. Uno dei relatori ha parlato di migranti e dell’accoglienza che viene loro offerta: insegnare la lingua italiana, curarsi della loro salute al di fuori delle convenzioni sanitarie legali, proporre amicizia e affetto al di là delle diversità. I relatori sono volontari che da giovani hanno incontrato le frontiere tra gli stati dell’Europa; poi, dopo aver assistito al loro smantellamento, hanno toccato con mano che il confine, geografico e territoriale, non era più un ostacolo; qualche decennio dopo vedono rinascere i solchi di nuovi confini, di steccati e barriere che domani potrebbero diventare muri.
Un altro tra i relatori esalta il termine “confine” benedicendone l’esistenza perché, se nel 1943 non ci fossero stati confini, dall’Italia il fascismo sarebbe dilagato in Svizzera e tanti ebrei e antifascisti non si sarebbero potuti salvare. La piccola Svizzera, unica oasi di democrazia nell’Europa occupata da Hitler e dai dittatori suoi epigoni, offrì una via di scampo ai tanti fuggiaschi che premevano alle sue porte.
Poco importa dunque se la rete confinale varcata dai fuggitivi, dai vicini ticinesi, venga chiamata “ramina”. La rete o ramina, che divideva l’Italia dalla Svizzera, oggi non esiste più: ne rimangono qua e là, a mo’ di testimonianza, solo dei brandelli arrugginiti.
Nessuno, al tavolo dei relatori, e nemmeno uno dei ragazzi in platea, sono certa, ha pensato alla necessità di ripristinare dei limiti materiali tra una nazione e un’altra, tra un popolo e l’altro, oggi, nel terzo millennio. I settant’anni, faticosi e difficili, di coesistenza pacifica tra le nazioni europee, ci hanno insegnato a considerare la fratellanza come un aspetto connaturato alla convivenza civile.
Ai ragazzi della Scuola Europea, come agli altri coetanei, i decenni di libertà hanno consentito una libertà di movimento in Europa e in gran parte del mondo che loro ritengono acquisita per sempre e non negoziabile.
È quello che ci auguriamo anche noi.
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