Questa volta Ueli Steck, lo scalatore svizzero, detto Swiss Machine per la sua falcata prodigiosa e veloce, non ha completato il cammino.
La meta, quella che si era proposto di raggiungere in Nepal, l’attraversata di Everest e Lhotse, gli si è sottratta inaspettatamente. l’incidente mortale, mentre si stava acclimatando sulla parete del ghiacciaio del Nuptse, gli ha sbarrato il passo trascinandone il corpo per mille metri: il cammino del quarantenne Steck, si potrebbe dunque pensare, ė rimasto incompiuto il 29 aprile scorso.
Non è così. Non è il cammino macinato a contare, anche se Ueli era noto, oltre che per il rosario di imprese, soprattutto per la velocità dei tempi di esecuzione. Ottenuta spostandosi a piedi, in bicicletta, persino in deltaplano.
Ma a nessun Dio può interessare di banalizzare, con la contabilità spicciola, gli eroici passi di chi, della montagna, aveva fatto il proprio idolo, la ragione di vita, la strada e la compagna da inseguire fino alla fine. A valere era innanzitutto quella molla che lo trascinava in alto e sempre più avanti, che parlava a Ueli come fosse una voce amica, sussurrandogli al cuore, agli orecchi, la parola decisiva. Ed era anche, e soprattutto, quella necessità di misurarsi con se stesso, di ricominciare ogni volta come fosse la prima, dimenticando la fatica, il battito del cuore che squassa il petto e la mente, quando la situazione sembra sfuggire di mano.
Le imprese tentate erano spesso andate a vuoto, non era sempre detto, non era per nulla scontato che arrivassero a buon fine: non lo è per nessuno che si confronti con la montagna. Ueli lo sapeva, più di chiunque altro.
La pioggia di sassi degli sherpa irosi, la determinazione a salvare un compagno in pericolo di vita, la iella di qualcosa ch’era andato storto -come un principio di congelamento, o le condizioni meteorologiche mutate, o uno scivolone improvviso di trecento metri- tutte queste circostanze, davvero verificatesi, lo avevano più volte convinto a ripiegare, rinunciando all’obiettivo.
Erano pur sempre, anche questi, chicchi -non di misteri gaudiosi, ma dolorosi- dello stesso rosario di una vita eccezionale, quella di un carpentiere che si scopre, ancor giovanissimo , dotato di passione e di qualità atletiche tali che gli consentono di elevarsi a livelli altissimi. La voglia di sempre nuove e più ambiziose mete e la velocità di copertura del cammino percorso gli avevano concesso una carriera costellata di successi, di inarrivabili record e premi. Ottenne due volte il Piolet d’Or, massimo riconoscimento alpinistico: nel 2014 lo ebbe per la conquista in solitaria (tempo 28 ore per andare e tonare dal campo base) della parete sud dell’Annapurna, a 8.091 metri. Incredibile. Tale era stata l’impresa da trovarsi anche in difficoltà a dimostrare l’autenticità di quanto asserito senza testimonianza fotografica. La macchina gli era disgraziatamente caduta sotto una pioggia di schegge di ghiaccio. “Pensate quel che volete. Quel che ho fatto, lo so ben io”, era stata la replica. Chi lo aveva visto da lontano, coi propri occhi, aveva poi potuto confermare.
Ma tutto questo faceva ancora parte del gioco, gioco grandioso e nobilissimo, di chi aveva fatto una scelta tanto rischiosa e paziente insieme. E altrettanto immensa ed estrema.
Ueli aveva però raccontato, di recente, di sapere di aver osato troppo: s’era accorto di essere andato oltre la linea che dovrebbe segnare il confine tra la sicurezza e il rischio della vita: tra la voglia di arrivare, per rimanere solo con la montagna- la quarta dimensione, come piace dire a Messner- e però quella di ritornare a casa, col dovere di raccontare a tutti quell’estremo incontro.
Ma questa volta era in semplice fase di allenamento. Il compagno Tenji si stava riprendendo da un rischio di congelamento e Ueli aveva deciso di cominciare a provare da solo.
Pare sia scivolato, per un tempo infinito e un migliaio di metri: il corpo è stato ritrovato, le dita in parte mutilate, a causa dei pezzi di ghiaccio cadutigli addosso.
Come Drogo nel Deserto dei Tartari attendeva da tempo, forse da sempre, la definitiva traversata. La voglia di eroismo di Ueli somigliava forse molto a quella del buzzatiano tenente Drogo: c’era anche in lui la ricerca di un nemico da combattere, la sfida del coraggio, la metafisica illusione di un eroismo da spendere sulle più alte cime, oltre la fortezza Bastiani della quotidianità dove si consuma la vita di ogni uomo.
Prima della scoperta finale, quella di una morte, affrontata in solitudine, senza compagni di battaglia né di cordata.
Così è stato per Ueli, personaggio che a Buzzati sarebbe piaciuto immensamente: perché lo sguardo e il passo del giornalista scrittore cercavano spesso la solitudine della montagna, vicino alle vette delle Dolomiti dove lo scalatore bellunese ch’era in lui amava spingersi e sedersi, ammirandone le accattivanti asperità della sua irresistibile natura.
E anche perché, senza saperlo, nel rappresentare la fine di Drogo, Buzzati aveva descritto e previsto anche la morte, eroica e umanissima insieme, di Ueli Steck, detto Swiss Machine.
Morte che lui stesso avrebbe preferito alla sua, avvenuta invece, dopo lunga malattia, in un letto d’ospedale. Era una sera di neve, ben altra neve, il 28 febbraio del 1972.
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