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Attualità

L’ORO DI VARESE

MASSIMO LODI - 05/05/2017

marottaGran simbolo per la varesinità, Beppe Marotta che si appresta: 1) a vincere  il sesto scudetto consecutivo con la Juve: 2) a giocarsi la finale di Champions League contro il Real Madrid. E che ha ricevuto la strameritata Girometta d’oro 2017 della Famiglia Bosina.

Amministratore delegato e direttore generale, la squadra bianconera dei trionfi l’ha costruita lui. Il suo omonimo, celebre scrittore, pubblicò “L’oro di Napoli” e De Sica ne fece un film. Lui è per noi l’oro di Varese, e trattasi d’un film qui -e non solo qui- mai visto prima d’oggi.

Storia esemplare, dal nulla a tutto. Dal sacrificio al successo. Dalla gavetta alla celebrità. Non dalla polvere: la gavetta non è polvere. E’ umiltà, grinta, autostima. Una volta la parola era ricorrente, ora desueta. Si vuole ogni cosa e subito, vien chiesto al sogno di farsi all’istante realtà, non c’è la pazienza dell’attesa e invece la voglia di rimuoverla.

Per lui, per Marotta, andò al contrario. Com’era costume nell’Italia che faticava a sfangarla,  dopo la guerra. Come lo fu nell’Italia della generazione successiva, pur se in termini assai meno drammatici. Genitori che sgobbano per mantenere la famiglia, figli che imparano in fretta la lezione: lavorare, risparmiare, progettare. Beppe è uno di quell’epoca, di quei valori, di quel legno morale. Il progettare si riferisce alla speranza nel futuro: credere in un avvenire migliore, secondare le proprie virtù perché le uniche utili a cogliere un obiettivo, non perdere mai l’ottimismo anche quando a vincere è qualche sconfitta di passaggio.

Anni Settanta. Il ragazzo dai capelli a cespuglio ama il calcio, gli dedica ogni ora lasciata libera dalla scuola, sta più al “Franco Ossola” che a casa sua o al bar con gli amici o a spasso con la fidanzatina, assolve ogni piccola incombenza pur d’essere “uno del Varese”. Le fondamenta della carriera che si rivelerà prestigiosa nascono da lì: dedizione, tenacia, modestia. Una dote sul serio posseduta da chi non è convinto d’averla. Marottino era ed è uno di questi.

Comincia col riempire le reti di palloni durante gli allenamenti, poi il primo incarico nelle giovanili biancorosse, e a seguire responsabilità varie. Sale nella considerazione di allenatori e dirigenti fino a diventare il presidente del club. Successivamente, il felice peregrinare in tante città d’Italia, a ricoprire ruoli di vertice nel calcio professionistico. Conserva la genuinità delle origini, non s’impolvera del borotalco della supponenza, tiene saldi i legami con la sua terra. La nostra terra.

Torna a Varese da big nell’estate del 2010. Andrea Agnelli è appena diventato presidente della Juve e lo nomina direttore generale (poi lo promuoverà amministratore delegato). Il prescelto decide di portare qui la squadra in ritiro: al Palace Hotel e allo stadio di Masnago sono giorni di festa. Non saranno gli unici. Comincia allora la costruzione d’una straordinaria macchina sportiva, arrivata ora a carezzare un epocale triplete: scudetto, Coppitalia, Champions.

Il “fioeurell” che ha dato retta al suo istinto, che gli ha sotteso qualunque impegno-svago-divertimento, che ha privilegiato la serietà in un mondo spesso avventuroso e superficiale, è arrivato al top d’una carriera non per caso, per fortuna, per un favorevole accidente. Vi è arrivato sapendo usare i suoi talenti, e senza mai dimenticare da dov’è partito. Come ogni varesino capace d’esportare la miglior varesinità: il gusto del darsi da fare in silenzio, del mantenere il profilo basso, del puntare a un traguardo giudicandolo la partenza per inseguire il successivo, del valutare il contesto in cui sei cresciuto un patrimonio fondamentale della tua sorte professionale. E dunque da custodire riservandogli ogni cura. Marotta ne diede conferma con una battuta rivelatrice quando gli “Amici del liceo classico” gli assegnarono la benemerenza del Cairolino: “Senza quella gioventù, non ci sarebbe stata per me questa Juventus”. Seguirono applausi convinti, anche dalla platea non bianconera.

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 Questa l’intervista che Marotta rilasciò al giornale del Liceo classico quando ricevette il “Cairolino”

 “Il Liceo classico? Anni indimenticabili. Bellissimi. Formativi. Storie di amicizia e di studio, di scoperta d’umanità, di scambi d’idee e sensazioni. Storie di una vita che cominciava a essere davvero tale, ad assumere un profilo, a scrutare verso un orizzonte. Anni che hanno segnato la mia esistenza come quella, credo, di tutti gli altri che li hanno vissuti con me. Anni che mi porto dentro l’anima, incancellabili, rimpianti, preziosi”.

Beppe Marotta è orgoglioso di ricevere il Cairolino d’oro. “Non me l’aspettavo -dice- e sono riconoscente verso chi ha deciso di fare questa scelta, per me così gratificante”.

A dire la verità è gratificante l’opposto: che gli Amici del Classico abbiano privilegiato -nel conferire il riconoscimento- un ex allievo di successo, celebrando il prevalere del merito. Che successo, poi. General manager di numerosi club calcistici -Varese, Monza, Ravenna, Como, Venezia, Atalanta, Sampdoria- e infine amministratore delegato della Juventus. Il top del top, nel mondo del pallone. Infine, la storia speciale: partito dal nulla, arrivato sulla cima. Da solo, senza l’aiuto, la spinta, l’accompagnamento di nessuno. Self made man esemplarmente tipico.

L’avventura cominciò da Varese, proprio all’indomani della maturità classica, anno 1978. Marotta frequenta già la società biancorossa, allora sotto il patronato della mitica famiglia Borghi: onnipresente allo stadio Ossola di Masnago, si occupa d’un po’ di tutto, è benvoluto da giocatori e dirigenti. D’improvviso si apre la possibilità di guidare il settore giovanile. Lui, appena iscrittosi a Giurisprudenza, accetta. L’impegno è totalizzante, gli studi universitari dovranno ben presto essere messi da parte, il calcio non ammette distrazioni.

“Ho ancora il rammarico -confessa- di non aver potuto concludere il percorso accademico che avevo iniziato. Ma nello sport succede spesso, quasi sempre: se ti vuoi dedicare con la massima professionalità al tuo incarico, devi scordarti il resto. Un peccato”.

Così un peccato, e così un rincrescimento, che  Marotta è stato tra i più convinti sostenitori d’un progetto unico nella storia dei club calcistici: l’istituzione d’un liceo Juventus, cinque anni di corso, studi parificati, oggi 115 allievi. I ragazzi che scelgono Torino per tentare una carriera da sogno, vengono agevolati nel non assegnare al cassetto dei sogni il diploma di scuola media superiore.

Marotta conquistò il suo insieme con il plotoncino della sezione F. “Bella classe” ricorda con più d’un filo di nostalgia. “Una mista, ragazzi e ragazze in gamba. L’amico più caro era Mauro Marocco, abitavamo entrambi ad Avigno, avevamo frequentato insieme elementari e medie. Praticamente inseparabili. M’incuriosivano alcuni compagni che venivano dal seminario, avevano già definito il loro itinerario di vita, mostravano certezze mentre molti di noi coglievano nel loro presente il contrario: l’incertezza. Uno, estraneo al gruppetto dei seminaristi e originario di Besozzo, sarebbe diventato frate francescano, chissà se gli furono d’ispirazione quei modelli.

Capimmo allora cosa significavano amicizia sincera, solidarietà di sostanza, anche bonaria complicità qualche volta. Verso i professori c’era rispetto, e perfino ammirazione. Per Bruno Mainetti, per esempio: autorevole, capace, d’originalissimo tratto umano. Anche per Giovanni Bertolè Viale, che non insegnava da noi, ma era un’istituzione riverita della scuola. E per il preside Felice Bolgeri, uomo comprensivo, dialogante, di opportuna indulgenza quand’era il caso”.

Nato il 25 marzo del ’57, quattro mesi di residenza a Ghirla e poi il trasloco a Varese con papà Giovanni e mamma Maria, Beppe ha un fratello, Salvatore, e una sorella, Pinuccia. E’ sposato con Cristina, genovese, che gli ha regalato due meravigliosi gemelli, Giovanni ed Elena. Vuole bene alla sua città d’origine, vi ritorna spesso, non ha abbandonato lontane sodalità, né scordato numerose conoscenze, e non guarda con snobismo al “milieu” di provincia dal quale proviene. Al contrario: avverte l’orgoglio d’appartenervi, ne apprezza la cifra identitaria. Non l’ha mai smarrita, nel lungo girovagare pallonaro che l’ha condotto fino a casa Agnelli.

La chiamata bianconera venne da una telefonata di Santalbano, amministratore delegato della Exor, la finanziaria dell’impero Fiat. Gli comunicò che erano interessati alla sua collaborazione. Al primo contatto seguirono il colloquio con il presidente Andrea Agnelli, l’intesa a prima vista, il rapporto professionale che in fretta diventò qualcosa di più, un’amicalità forte.

“Il calcio d’oggi -sottolinea Marotta- è diverso da quello di tempi lontani e meno lontani. Il mecenatismo è scomparso, le società vanno guidate con i criteri che sovrintendono a qualunque impresa economica, però la sintonia umana in un’équipe dirigenziale è d’importanza primaria”.

Forse è ciò che serve per marcare la differenza con gli altri. Non solo cifre, dunque: anche cuore. Il cuore Juve, poi, è (dev’essere) un cuore grande. “Avvertiamo la responsabilità d’esaudire i desideri di milioni di tifosi, d’essere all’altezza dell’impegno che ci chiedono, di corrispondere a quella che in fondo è una missione”.

La missione che si sostanzia nello stile Juventus: rappresentare un archetipo di sport e di comportamento, di competitività e di rispetto. La cosa più importante non è vincere, ma vincere in un certo modo. Per vincere davvero e nel tempo, e non ogni tanto e magari per caso. D’un tale sacerdozio della vittoria Beppe Marotta ha imparato tanto bene gli obblighi liturgici da poterne ormai essere considerato un insegnante. Chi l’avrebbe immaginato, all’epoca in cui l’immaginazione correva, solitaria e ingenua, sugli scricchiolanti banchi di via Dante.

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