Tra circa due mesi saranno centocinquant’anni dalla nascita di Luigi Pirandello. Più o meno quattro o cinque generazioni di uomini o di donne. Non è certo un’eternità, ma quando Pirandello venne alla luce a Girgenti, l’odierna Agrigento, da una famiglia borghese e di scelte risorgimentali, l’Italia esisteva da soli sei anni. Possiamo affermare a buon diritto, anche oggi, dopo un secolo e mezzo e dopo svolte storiche importanti e decisive per il nostro Paese, che nessun altro scrittore, o quanto meno pochissimi, abbia potuto rappresentare e rappresenti tuttora una quintessenza di italianità. Più di D’Annunzio e più di Italo Svevo (Ettore Schmitz), cui spesso vene associato in quanto a “modernità”.
Perché questa è la principale chiave interpretativa di Luigi Pirandello: la “modernità”, concetto qui scritto tra virgolette perché sarebbe forse meglio parlare di universalità. E non è un caso che il suo stesso nome, alla pari per esempio a quello di un Franz Kafka, o per tornare a noi italiani a quello di un artista geniale qual è Federico Fellini, sia arrivato ad assumere una cifra specifica per delimitare un ambito della condizione umana nel mondo, di oggi e forse anche di ieri: si dice pirandelliano, appunto, come kafkiano o felliniano…
Il terreno in cui operò Pirandello è – come arcinoto – quello della letteratura, e di un suo aspetto “visivo”, il teatro. Così come quasi un secolo dopo Federico Fellini operò e si impose nel cinema. Ma teatro e cinema si elevano da una forma poetica individuale per la loro componente sociale e per il contributo alla loro forma d’arte dato da più persone: gli attori, il regista, gli scenografi per il teatro, per lo più, e anche principalmente i musicisti e gli operatori della fotografia per il cinema.
Ma la conoscenza della loro opera e del loro messaggio – allo stesso modo di quanto avviene per lo studio di grandi poeti o scrittori italiani, anche se con caratteristiche diverse (pensiamo a Dante, a Petrarca, a Leopardi…) – risulta essere imprescindibile, oggi soprattutto, se si vuole capire la nostra universale realtà.
Le opere di Pirandello ci portano alla definizione di un problema centrale della nostra esistenza, che travalica anche il significato di poesia: le verità e la conoscenza di sé, che sono cangianti, mutevoli a seconda dei momenti delle età, delle condizioni di vita.
Se Federico Fellini, l’altro nostro genio contemporaneo che abbiamo voluto citare, fu l’artista profondo – e dunque il poeta – del come eravamo e del come siamo (pensiamo a due film in particolare: i Vitelloni e Amarcord), Pirandello delinea l’arte (e forse anche l’incertezza) della nostra più intima e nascosta umanità.
Le lettura, meditata o no, ma di giorno in giorno, come se si trattasse di una cura, della raccolta delle Novelle di un anno – che poi fanno anche da base al suo teatro – aiuta a capire noi stessi. Non è soltanto uno svago.
Luigi Pirandello partì da qui, da questa ricerca, più che da un diletto di scrittura, per arrivare a un’affermazione della realtà, che non è mai quella che è o che dovrebbe ma quella che appare, e che cambia.
E qui pensiamo alla famosa dichiarazione – quasi come a un programma di intenti – della signora Ponza nella commedia Così è (se vi pare), che il nostro autore scrisse un secolo fa, nel 1917. L’anno di Caporetto. Un secolo trascorso che è stato forse un arrivo, un traguardo, non un punto di partenza. Senza andare alla rilettura dei romanzi, che in ogni modo completerebbero lo studio, la conoscenza.
La signora Ponza definisce una strana situazione dell’esistenza. Strana fino a un certo punto. Cioè il suo rapporto con la signora Frola e del signor Ponza suo marito. Una situazione in cui tutto si intreccia o si potrebbe intrecciare: chi è figlio di chi, chi vive ancora, chi non c’è più, chi – forse – è pazzo. Una verità che si moltiplica come in un gioco di specchi, a seconda di chi guarda.
E la signora Ponza sostiene di essere sia la figlia della signora Frola, sia un’estranea e seconda moglie del signor Ponza e, di per sé stessa, di non essere nessuna… “Io – le fa dire Pirandello – sono colei che mi si crede”.
Ecco, c’è qui qualcosa di più di una semplice battuta teatrale e letteraria. C’è un’identificazione universale della maschera dell’esistenza, di ciò che siamo e che – a volte – a non siamo, c’è la rappresentazione oggettiva – ma sempre diversa e mutevole – del nostro comportamento sul palcoscenico della vita.
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