L’anziana contadina ci offre un piatto ciascuno. Vi ha disposto, a mo’ di tovagliolo, una foglia di banano e vi ha poggiato sopra una galletta di pane di miglio ed un impasto di cocco, cipolla e spezie, tutto preparato sotto i nostri occhi. E si mangia esclusivamente con le mani. Siamo in Sri Lanka, in una casa senza pareti. Ci separa dalla campagna circostante solo un basso muretto, lungo il quale corre la panca su cui siamo seduti. Sulle nostre teste, un tetto di palme intrecciate. Alle nostre spalle, di quando in quando, il pavone lancia il suo strano miagolio.
Siamo saliti su un carro trainato da buoi gibbosi, abbiamo attraversato un lago a bordo di una primitiva imbarcazione ed infine siamo arrivati qui percorrendo a piedi un sentiero di terra rossa che si snoda tra l’erba alta. Sappiamo bene che i contadini non vivono più così, che i gesti sicuri della donna che ci ha accolto sono solo una dimostrazione dell’abilità e dell’ingegnosità di un tempo antico (e, se avessimo qualche dubbio, i tre tuk tuk, posteggiati fuori e pronti a riportarci al punto di partenza, sarebbero lì a ricordarcelo). Tuttavia è affascinante questo tuffo nel passato. Affascinante come il resto di questo Paese.
La cosa che più colpisce, dello Sri Lanka, sono i suoi colori: il rosso della terra, il verde della vegetazione, il blu dell’oceano e tutte le sfumature dei fiori e dei frutti. Ma soprattutto il verde, la gamma completa dei verdi. Nei piccoli centri abitati, le case sono nascoste nella foresta tropicale che sembra proteggerle da sguardi indiscreti e ognuna, anche la più modesta, è rallegrata da fiori. Lungo le strade extra-urbane, curate e pulitissime, all’improvviso un’esplosione di colori: sono chioschi di frutta di ogni specie. Solo di banane si contano più di 60 tipi: gialle, rosse, verdi, piccole, grandi, dolci, asprigne…
Percorrere le strade di quest’isola è una continua scoperta: puoi doverti fermare all’improvviso per consentire ad un’iguana di attraversare la strada, o sostare su un ponte per guardare due ragazzi che nelle acque di un fiume strofinano con cura un elefante docile e soddisfatto. Puoi entrare nell’orfanotrofio degli elefanti di Pinnawela – dove vengono accuditi e curati gli animali feriti o abbandonati, prima di essere riportati nel loro habitat naturale – e assistere al loro bagno e all’allattamento: è davvero incredibile e divertente vedere questi pachidermi seguire come cagnolini le persone che li nutrono con litri e litri di latte. Ed è curioso entrare in una cartoleria dove si vendono quaderni prodotti con la lavorazione dei loro escrementi. Puoi trovare scimmie ovunque: per le strade, nei siti archeologici, nelle città, dove addirittura si raccomanda agli ospiti degli hotel di non aprire le finestre delle camere per evitare intrusioni spiacevoli.
In un giardino ayurvedico ci si imbatte in piante mai viste, dalle proprietà – dicono – miracolose, mentre il giardino botanico di Kandy sembra la realizzazione concreta del Paradiso Terrestre di Dante: si ha la sensazione che tutte le piante della Terra si trovino qui e da qui disperdano i loro semi sul resto del pianeta. Salendo verso le quote più alte, si giunge alle piantagioni di the: terrazzamenti che si perdono a vista d’occhio, dove le donne, avvolte nei loro colorati sari, lavorano alacremente sotto la supervisione di un truce sorvegliante (Inutile dire che ho desiderato un’immediata inversione dei ruoli).
Ma non solo la natura, anche le antiche pietre affascinano, in quest’isola. Milleduecento gradini conducono ai resti della città reale di Sigirya, edificata nel V secolo su un monolite che, dai suoi 370 metri di altitudine, domina una vasta pianura boscosa e tutto l’ondulato panorama sottostante. A metà salita, si resta stupiti nel trovare sulla roccia eleganti affreschi che rappresentano alcune ragazze a seno nudo che offrono fiori e frutti. Altri bellissimi affreschi – ovviamente non osé – decorano i soffitti rocciosi dei templi rupestri di Dambulla, edificati ancor prima del I secolo a.C. ed ora patrimonio UNESCO; li popolano 153 statue di Buddha. In questo Paese, a maggioranza buddista, le statue che lo raffigurano si trovano dappertutto, ma la più interessante è forse quella del Buddha dormiente di Polonnaruwa: è chiamato dormiente, ma in realtà è morto, e per noi, che facciamo di tutto per escludere la morte dal nostro orizzonte mentale, appare al tempo stesso strano e consolatorio il sorriso sereno che aleggia sul volto di questa statua, scolpita in una pietra lunga 14 metri.
Potrei raccontarvi molte altre cose: il safari nel Parco Yala, l’oceano che si spalanca improvviso in mezzo al verde, la cascata che precipita e rallenta in una serie di pozze d’acqua trasparente, le rappresentazioni folkloristiche, gli edifici coloniali conservati e perfettamente restaurati, ma non servirebbe a rendere l’atmosfera di quest’isola: l’armonia che sembra regnare tra tutti gli esseri viventi, la tranquillità con cui i Singalesi vivono le loro giornate. Dal momento in cui siamo atterrati, quando le prime luci dell’alba hanno cominciato a mostrarmi il paesaggio, ho avuto una strana e contraddittoria sensazione: quella di trovarmi in un altro mondo eppure di essere “a casa”. Non per nulla uno dei suoi nomi è Serendib.
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