Durante le commemorazioni di questo 25 Aprile è stato ricordato il significativo contributo dei cattolici varesini alla Resistenza, come è documentato dai testi di storia locale, dai numerosi documenti, dalle testimonianze, tante, raccolte nei decenni passati.
Purtroppo la menzione di questa decisiva partecipazione si è andata affievolendo con il tempo, fino a mancare quasi del tutto nel contesto delle commemorazioni che annualmente rinnovano la memoria degli eventi di settant’anni fa.
Nel corso degli ultimi anni ho rilevato una certa sorpresa a ogni cenno o sottolineatura dell’adesione al movimento resistenziale di sacerdoti, suore, scout, credenti senza particolari ruoli nella Chiesa varesina.
I giovani si sorprendono quando se ne fa cenno, avendo in qualche modo assimilato la convinzione che la Resistenza appartenga prevalentemente alla sinistra e all’area laica e liberale del nostro paese. Ma anche gli adulti più attenti alla memoria della Liberazione conoscono le vicende dei caduti varesini dell’Ottobre di sangue e poco di coloro che nella Chiesa varesina si prodigarono, in collaborazione con il C.L.N. e i comuni cittadini, per salvare molte delle situazioni di grave pericolo.
Quest’anno nell’omelia della Messa per i caduti della Resistenza, il Prevosto di Varese, monsignor Panighetti, ha rievocato figure come quella di Vittorio Pastori, che i varesini ricordano come il gestore del Ristorante “Da Vittorio”, divenuto prete in età adulta, e poi missionario in Africa.
Nello scorso settembre una piazzetta della frazione Rasa è stata intitolata a lui ma, purtroppo, anche in quell’occasione si parlò di Vittorio Pastori solo come del don Vittorione che si prodigò nelle zone più povere dell’Africa dove portò cibo, medicine, istruzione.
Nessun cenno alla sua esperienza resistenziale, solo un fugace riferimento al suo impegno scoutistico. Tacendo che lo scoutismo era stato messo fuorilegge dal fascismo e che il giovane Vittorio negli anni successivi all’8 settembre, insieme con altri cattolici varesini guidati da don Natale Motta, faceva parte dell’organizzazione clandestina milanese O.S.C.A.R, (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati) che aiutava ex prigionieri alleati, antifascisti, famiglie di ebrei a raggiungere la Svizzera. Fino al febbraio del 1944 lavorò per questa coraggiosa opera di carità a fianco del prete luinese don Folli. Poi, a seguito dell’arresto di quest’ultimo, si unì alla Formazione Lazzarini che operava in quella zona.
Da Varese Pastori continuò ad accompagnare gruppi di fuggitivi in cerca di salvezza, a portare viveri e indumenti ai partigiani. Nei pacchi con il necessario alla sopravvivenza infilava anche qualche copia del periodico cattolico clandestino “Ribelli per amore”, fondato da Teresio Olivelli, partigiano cattolico proposto da Papa Francesco per la beatificazione.
Nell’agosto del 1944, dopo una retata dei fascisti nella zona, Vittorio dovette riparare in Svizzera con alcuni compagni; fu internato nei campi di lavoro di un Cantone di lingua tedesca dove fece il contadino fino alla fine della guerra. Rientrò a Varese nell’agosto successivo alla Liberazione.
Ribelle per amore, Vittorio a Varese continuò le sue attività lavorative senza trascurare il volontariato in parrocchia. Si spese anche per sostenere i giovani reduci della Repubblica di Salò a reinserirsi nel tessuto sociale della città. Un animo buono, pronto ad aiutare senza contropartita, che negli anni successivi non parlò più del suo contributo alla Resistenza. Per quel pudore tipico degli uomini buoni, timidi e discreti, che operano per il bene con naturalezza. Un po’ come Giorgio Perlasca che rientrato in Italia non parlò a nessuno, nemmeno alla famiglia, della sua impresa di salvataggio di più di cinquemila ebrei ungheresi. Un po’ come Luigi Cortile, il finanziere a cui Clivio ha dedicato una piazza, che morì in un lager perché i nazisti scoprirono la sua attività di salvataggio dei fuggitivi verso la Svizzera.
Rubo le parole del titolo del libro che il giornalista Deaglio dedicò a Perlasca e le dedico a Vittorio Pastori, espressione della “banalità del bene”.
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