Il dibattito di queste settimane sul fine-vita e sul testamento biologico come strumento per certificare la volontà di un paziente di rinunciare alle cure e di scegliere per un’accelerazione dell’evento della sua morte, ripropone la domanda su chi abbia titolo e diritto di legiferare su problemi così delicati come quelli che riguardano la vita e la morte.
Se è vero infatti che non si può lasciare all’arbitrio individuale decisioni così delicate come il dovere di curare sempre il paziente rispettandone al contempo la piena libertà (come già peraltro prevede il Codice Deontologico), è altrettanto importante stabilire regole che tutelino da forme subdole di sostanziale eutanasia o dall’esercizio di modalità di accanimento terapeutico, applicando formulazioni giuridiche equilibrate, non ideologiche e al tempo stesso realisticamente applicabili.
Ciò perché si va a toccare i fondamenti stessi dell’essere umano, tenendo conto che oggi i progressi della medicina e delle tecnologie sanitarie tendono quasi a sfumare i confini stessi tra vita e morte, tra terapia e pretesa della medicina di trattare la morte solo come fenomeno biologico naturale. L’esito è che la politica interviene a regolamentare ciò che non potrà mai essere racchiuso in formule giuridiche meccaniche, proprio perché non si può codificare l’irripetibile singolarità della persona, che domanda un accompagnamento dignitoso e non disperato alla sua fine prima che invocare l’applicazione di astratti diritti. Perciò nemmeno la legge più giusta, equilibrata e completa potrà rispondere esaurientemente alle domande poste nella morte, di cui comunque nessuno può prevedere il tempo e la modalità.
Fatta questa doverosa premessa, nessuno potrà sbandierare di aver prodotto un testo legislativo perfetto, anzi ognuno dovrà riconoscere che la politica, quando affronta questi temi, parla di qualcosa che non gli appartiene del tutto, in quanto non è creato dalla volontà politica; per cui la legislazione non potrà mai esercitare un controllo né sulla vita, per esempio definendone quando è giusto che giunga alla fine, né sulla salute, sino a poter determinare dove deve arrivare l’azione degli operatori sanitari.
Una “buona politica” deve piuttosto cercare un’equilibrata mediazione per assicurare al malato una morte dignitosa, che sia al contempo un evento di responsabilità personale e il luogo di quell’appartenenza sociale cui il singolo viene riconsegnato nella comunità che lo ha originato. Ciò sposta il dibattito dalla domanda sui criteri per decidere la morte (in un’ottica che poco o tanto rimane quella dell’eutanasia) alla ripresa del contesto in cui l’evento della fine della vita possa essere incluso nella rete di relazioni significative in cui il soggetto vive.
Le brevi note che seguono vorrebbero cogliere per questo almeno gli aspetti più critici e la posta in gioco di questo dibattito e delle scelte politiche e legislative che ne seguiranno, chiarendo prima di tutto in che consista realmente la libertà del malato di poter scegliere la linea terapeutica da applicare alla sua malattia, per capire in che senso possa giustificarsi un eventuale rifiuto di proseguire le cure.
Ricordiamo che un testamento biologico verrebbe formulato e sottoscritto quando il paziente è ancora in buona salute, e non sa esattamente cosa gli accadrà, e che ciò impedisce una scelta realisticamente aderente alle sue vere condizioni, anche perché il rifiuto di continuare l’assistenza medica è prodotto quasi sempre dalla disperazione e dalla percezione di abbandono che il morente avverte su di sé. Ciò sposta l’attenzione al problema di come assistere in maniera veramente umana il malato terminale, non tanto assicurandogli un’impossibile guarigione quanto aiutandolo a vivere con un significato anche gli ultimi istanti che gli rimangono.
Parallelamente, come può un medico rinunciare alla sua missione sospendendo ogni attività terapeutica in risposta ad una volontà del paziente, peraltro così difficile da accertare anche per le pressanti insistenze dei parenti? E comunque, risulta contrario ad ogni principio deontologico sospendere la nutrizione e l’idratazione che sono essenziali, non come terapia ma come elementari mezzi di sopravvivenza. Per cui, se è giusto evitare l’accanimento terapeutico, non si può mai rinunciare a quei presidi essenziali che non si negherebbero a nessun paziente (comprese le cure palliative o l’uso di analgesici). Compito dello Stato è perciò piuttosto garantire che ad ogni singolo cittadino vengano offerte le cure essenziali, secondo una professionalità esercitata in scienza e coscienza.
La deontologia del medico prevede che siano messi in atto tutti gli strumenti e i mezzi per alleviare la sofferenza del malato e cercare di evitarne la morte, anche se ciò può collidere con la sua volontà di rinunciare alle cure: questo pone la domanda sul fondamento del diritto che il malato avrebbe di decidere autonomamente sulla cura della sua salute. Ma è evidente che il conflitto tra la scelta di poter decidere sulla propria vita e il dovere del sanitario di esercitare la propria funzione (sino all’esercizio dell’obiezione di coscienza), riguarda non un soggetto astratto, ma l’uomo concreto chiamato a mettere drammaticamente in gioco la sua libertà davanti al “caso serio” della vita.
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